Dania Avallone
18 settembre 2018
Ho incontrato per la prima volta Petros Solomon nell’agosto del 1991 a Massawa a casa di Saleh Meky, Ministro delle Risorse Marine. Ero appena arrivata in Eritrea e lavoravo nella sezione ambiente e ricerca del ministero. Quel giorno con lui c’era anche Sabat Efrem che allora era il sindaco di Asmara.
Fui colpita dalla sua incredibile semplicità. Eppure era una delle persone più importanti nel governo provvisorio eritreo. Era stato il capo dell’intelligence e al momento era Ministro della Difesa.
Lo rividi dopo diversi anni ad Asmara all’uscita della scuola dove andava a prendere i suoi bambini. Nel frattempo era stato Ministro dell’Interno e poi degli Esteri, ma era lì come un affettuoso padre di famiglia, sorridente e cordiale con tutti. Nel 1997 fu nominato Ministro della Pesca. Tutti a Massawa si chiedevano come mai ad un personaggio politico dal profilo così importante fosse stato assegnato un piccolo ministero tecnico. La sera nei bar della città portuale qualcuno rideva e diceva: “Assurdo! Hanno messo Petros Solomon a badare ai pesci. E la prossima volta? Cosa gli faranno fare, Il ministro dei dromedari? Bene! L’Eritrea si riempirà di dromedari.
Questo succedeva perché tutti conoscevano Petros Solomon e lo stimavano. Tutti sapevano che era un uomo di grande intelligenza, capacità e senso pratico e che la sua personalità eclettica avrebbe portato beneficio al Paese qualsiasi fosse stato il suo ruolo.
Purtroppo era già evidente che la scelta del governo era mirata, una sorta di punizione, che le cose in Eritrea stavano cambiando rapidamente e che Petros e altri membri del governo erano diventati critici verso le scelte politiche di Isaias Afeworki e dei suoi sostenitori.
Petros, pur non essendo un esperto come il precedente ministro che era oceanografo, riuscì in poco tempo a realizzare grandi progetti mirati soprattutto a migliorare le condizioni di vita dei pescatori attraverso lo sviluppo dell’acquacoltura. Petros era lungimirante, amava l’innovazione, odiava la burocrazia, guardava al futuro. Non si stancava mai di lavorare e il suo entusiasmo travolgeva tutti.
Ricordo che non gridava mai. Non ne aveva bisogno perché aveva un’autorevolezza sana e sincera cui tutti rispondevano con rispetto. Riusciva a creare armonia tra le persone e il ministero era diventato una seconda famiglia per quasi tutti i dipendenti.
Voleva portare acqua e vitamine alle isole dell’ arcipelago delle Dahlak e sconfiggere il glaucoma dei suoi anziani abitanti migliorando le loro condizioni di vita. I militari della Naval Base lo chiamavano “papà”, lo consideravano un padre e lui sapeva parlare con loro come solo un padre può fare. Tutti sanno che ha quattro figli, ma ne ha molti di più. Sono i figli dei compagni persi in guerra che lui ha sempre seguito e aiutato come fossero suoi.
L’ultima volta che l’ho visto era molto magro e sofferente. Tornava dal fronte di quella guerra stupida e inutile che nel 1998/2000) ha visto decine di migliaia di morti. Petros non voleva quella guerra. Ha combattuto per il suo popolo fin da ragazzo, ma era un uomo di pace. E’ stato tradito dai suoi compagni di lotta, dai suoi amici, da un intero popolo che non ha saputo ribellarsi, che ha creduto alle menzogne di un tiranno o che ha vigliaccamente girato la faccia dall’altra parte.
E’ facile accusare un politico di alto tradimento soprattutto quando non esistono leggi e avvocati. Chi è rimasto al suo fianco e lo ha sostenuto è stato imprigionato come lui senza prove e senza processo. Sua moglie Aster è in carcere da 15 anni per la sola colpa di aver voluto riabbracciare i suoi figli.
I suoi collaboratori che vedevano in lui la speranza di un futuro migliore sono come lui spariti nel nulla. Sopravvivere per tanti anni all’ isolamento in condizioni di estremo disagio, sottoposti a umiliazioni, maltrattamenti e torture… E’ possibile?
Ho smesso di pensare a quante sono in Eritrea le persone imprigionate ingiustamente. Ho smesso di chiedermi se i prigionieri sono vivi o morti. Quanti altri come Petros hanno sognato la pace tra le mura delle loro celle. Oggi in Eritrea si parla di pace, ma mi chiedo se può esistere pace senza giustizia.
Spero di poterli riabbracciare tutti e ringraziarli di quanto mi hanno insegnato.
Dania Avallone
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