Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 8 settembre 2018
La situazione umanitaria in Mali sta diventando sempre più drammatica. Da gennaio ad oggi ben cinquantamila persone sono fuggite dai loro villaggi per le continue violenze, causate da scontri etnici, conflitti armati, operazioni militari e attacchi di vario genere che stanno devastando il centro e il nord del Paese. Gli sfollati sono aumentati del sessanta per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Hassane Hamadou, capo della missione del Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) nell’ex colonia francese ha sottolineato che è davvero inquietante dover constatere quante risorse vengano messe a disposizione per le operazioni militari, mentre la popolazione non ha di che nutrirsi. Sono migliaia le persone che ogni giorno scappano, costretti a lasciare i loro pochi averi per cercare protezione altrove.
A fine agosto, Patrick Youssef, un responsabile per l’Africa del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), si è recato a Ménaka, nella regione di Gao, nel nord-est, una delle zone più instabili del Paese. Durante questa missione ha chiesto ai rappresentanti dei gruppi armati locali di facilitare gli interventi degli operatori umanitari e di rispettare la vita, la dignità della popolazione civile. Ottocento famiglie – circa cinquemila persone – hanno trovato finora rifugio in campi di accoglienza temporanei della Croce Rossa vicino a Ménaka e in una località non lontana da Andramboukane, città che si trova nella stessa regione.
In particolare nella zona di frontiera tra il Niger e il Mali dall’inizio dell’anno si susseguono senza sosta attacchi armati, per i quali si attribuisce la responsabilità a “banditi non meglio identificati” , ma sopratutto ai jihadisti di “Etat Islamique dans le Grand Sahara” e alle milizie locali loro affiliate. Massacri di civili in quest’area hanno ovviamente accentuato anche le tensioni etniche già esistenti da decenni.
Non di rado si verificano scontri tra i terroristi e militanti del Gruppo Autodifesa Tuareg Imghad e Alleati (GATIA) e Mouvement pour le salut de l’Azawad (MSA) – quest’ultimi filo governativi. Il fondatore di GATIA, El Hadje Ag Gamou, è l’unico generale Tuareg in seno all’esercito maliano. Mentre l’MSA è sostenuto dalla Francia nella lotta contro il terrorismo in Mali. Pochi mesi fa Moussa AG Acharatoumane, segretario generale di MSA e Gamou sono stati accusati di gravi abusi contro i fulani (per lo più pastori semi-nomadi), presenti nella zona di Ménaka.
Fulani e daoussak, allevatori anch’essi, sono in lotta da decenni per questioni di pascoli e pozzi d’acqua. I daoussak trovano protezione tra le fila di GATIA e MSA, che perseguitano i fulani. Secondo Guillaume Ngefa, direttore della divisione diritti umani di MINUSMA (acronimo francese per Mission multidimensionnelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) le violazioni dei diritti umani sarebbero piuttosto gravi nell’area di Ménaka, dove si sono verificate anche esecuzioni di massa: almeno novantacinque persone, accusate di terrorismo e banditismo sarebbero state ammazzate. E le varie ONG che operano nella zona, hanno potuto verificare massicci spostamenti di persone tra i fulani.
Invece di combattere il terrorismo, in questo modo si spingono i fulani a cercare protezione altrove, spesso si alleano ad organizzazioni jihadiste, più per istinto che per convinzione, ha precisato un osservatore francese tempo fa.
Martedì scorso c’è stato un nuovo attacco ad un campo di MINUSMA a Ménaka; un casco blu è stato ferito dalle schegge di una granata, che hanno danneggiato anche alcuni locali prefabbricati. La nuova aggressione è avvenuta poche ore prima che Ibrahim Boubacar Keïta, rieletto presidente il 20 agosto scorso, prestasse giuramento per il suo secondo mandato. I problemi che dovrà risolvere sono più o meno gli stessi che ha trovato quando ha vinto le elezioni nel 2013: soprattutto rilanciare e far rispettare con la massima urgenza il trattato di pace, firmato ad Algeri nel 2015.
Con la salita al potere di Keïta dopo le elezioni del 2013, era nata una nuova speranza di pace in tutto il Paese. L’intervento delle truppe francesi dell’operazione Serval per arginare il pericolo dei jihadisti e il dialogo con i gruppi armati del nord, lasciavano intravedere spiragli di luce. Ora, cinque anni più tardi, malgrado siano stati messi in campo decine di migliaia di caschi blu, una nuova forza regionale, Force G5 Sahel , centinaia di milioni di euro di aiuti finanziari da parte della comunità internazionale, e la firma del trattato di pace, che non è mai stato completamente attuato, l’insicurezza nel Paese è ancora una costante.
Nel 2012 oltre la metà del nord del Mali era sotto il controllo dei gruppi jihadisti. Solo con l’arrivo nel 2013 della MINUSMA, in gran parte dell’aerea è stata ristabilita l’autorità del governo. Diverse zone sfuggono però ancora al controllo delle truppe maliane e internazionali.
La Francia ha lanciato dapprima l’operazione “Serval” nel solo Mali, poi, per contrastare il terrorismo in tutto il Sahel, nel 2014 è stata sostituita dalla missione Barkhane, con base a N’Djamena, la capitale del Ciad. Barkhane conta quasi quattromila militari; in Mali sono stanziati millesettecento uomini, per lo più a Gao. Altri militari francesi si trovano a Kidal e a Tessalit, nel nord-est del Paese.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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