Sandro Pintus
Firenze, 7 settembre 2018
Anche dall’Italia sono stati acquistati cinque trofei di leone. Nel 2016 dal Sudafrica e dallo Zimbabwe. Sta scritto nel database di CITES (Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e fauna selvatiche minacciate di estinzione). Ma non si può sapere se sono frutto di quello “sport” che si chiama “canned hunt”.
Il tiro a segno a un leone in gabbia che non ha vie di fuga per portarsi a casa un troppo facile e dispendioso trofeo (10-20mila USD) è solo uno degli aspetti del business dei leoni in cattività. Il guadagno più redditizio è però quello delle ossa, pelli, teschi, zampe, denti, artigli e crini della folta, regale criniera leonina.
Il governo sudafricano e gli allevatori dicono che la vendita legalizzata di pezzi di leone serve a proteggere gli esemplari in libertà dal bracconaggio. È venuto fuori poi che gli allevatori ingannano i volontari e i turisti, inconsapevoli del fatto che i cuccioli, una volta cresciuti, mai andranno a ruggire e cacciare liberi nelle savane. Saranno invece preziosissima merce venduta nei mercati del Sudest asiatico e della Cina.
La smentita dell’utilità degli allevamenti per eliminare la caccia di frodo arriva anche dal biologo Pieter Kat, direttore dell’ong britannica LionAid. “Tutto ciò serve a favorire il commercio che va a scapito dei leoni selvaggi del Sudafrica – ha dichiarato in un’intervista al Conservation Action Trust – Stimolare il mercato asiatico sui prodotti di leone porta all’aumento della domanda che influenzerà i leoni in tutto il continente, favorendo il bracconaggio.
Secondo il biologo, in Sudafrica, un commerciante cinese paga uno scheletro di Pantera leo tra mille e duemila USD ma una volta in Asia vale oltre 20 mila USD. Le ossa vengono polverizzate in modo da poter essere utilizzate nella medicina tradizionale orientale mentre denti e artigli sono usati in oreficeria.
Ma c’è anche la truffa. Secondo un documento firmato da Ban Animal Trading (BAT) e EMS Foundation, nel Sudest asiatico le ossa di leone, a insaputa del cliente finale, vengono vendute come ossa di tigre la cui polvere è utilizzata anche per preparare il tiger wine (vino di tigre).
La carenza di ossa di tigre, predatore in serio pericolo di estinzione (sul pianeta ne rimangono meno di 4000 esemplari) ha quindi fatto schizzare la domanda di ossa del felino africano.
In Asia il tiger wine è falsamente considerato un potente anti infiammatorio, ed è utilizzato per trattare disturbi che vanno dall’insonnia alla meningite, dalla malaria alle malattie della pelle. Per l’alto prezzo sul mercato (180 USD a bottiglia) è considerato uno status symbol che dà forza e vigore a chi lo beve.
Dall’analisi del DNA è possibile capire se la polvere ossea è di tigre o di leone ma è impossibile sapere se il leone era in cattività o ruggiva libero. E questo fa il gioco dei trafficanti e dei bracconieri.
L’ong britannica Born Free ha da poco pubblicato il report “Contanti prima della protezione-Panoramica sull’allevamento per la caccia e il commercio di ossa di leone”. Il 98 per cento degli scheletri e le ossa del felino esportati legalmente dal Sudafrica finiscono nel mercato laotiano e vietnamita. È però dimostrato che il mercato legale del carcame osseo dei leoni sudafricani va di pari passo con il traffico illegale di avorio.
Il rapporto “Ossa della contesa: valutazione sul commercio sudafricano del leone africano, le ossa e altre parti del corpo” pubblicato dall’ong Traffic dà numeri interessanti. Il commercio è iniziato nel 1998 ma è schizzato in alto soprattutto dopo il 2007: Cina, Vietnam, Laos, Myanmar e Thailandia hanno importato quantità crescenti di leoni, corpi di leone e ossa dal Sudafrica. Il numero degli scheletri di Panthera leo nei cinque Paesi era 50 nel 2008 ed è diventato 1.160 nel 2011.
Il maggior importatore di parti di leone degli allevamenti sudafricani, nel 2017, risulta essere il Vietnam. I dati dell’archivio di CITES ci dicono che il Sudafrica ha venduto al Paese asiatico 814 corpi, 1.080 kg di ossa e 330 scheletri del grande felino.
Davanti al business dei leoni in cattività venduti a pezzi però sembra che il Sudafrica si stia dando la zappa sui piedi. Nell’ex colonia britannica, al Convegno “Allevamento dei leoni in cattività e la promozione dell’immagine del Sudafrica nella protezione dell’immagine del Paese”, lo scorso 21 agosto, le ong EMS Foundation e Ban Animal Trading hanno presentato un documento nel quale i leoni in cattività sono un boomerang.
Un rapporto scientifico esaminato dall’Istituto per gli affari internazionali del Sudafrica rivela che, nei prossimi dieci anni, l’allevamento dei grandi felini in cattività potrebbe causare una perdita sull’attrattiva del turismo pari a un valore di 3,6 miliardi di USD. Forse non più è tanto conveniente.
Sandro Pintus
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