Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
6 settembre 2018
L’evasione, durante gli ultimi scontri di Tripoli, di circa 400 detenuti vicini al regime di Muammar Gheddafi, rimasti sotto chiave in Libia nonostante le turbolenze dal 2011, è un fatto strano. Un altro degli aspetti che dà alla tregua, raggiunta con la mediazione dell’ONU, il sapore acre della sconfitta per il premier del governo riconosciuto internazionalmente, Fayez al Serraj, è il ruolo defilato della potente città-Stato di Misurata. In teoria le brigate che guidarono la guerra a Gheddafi e che avrebbero poi espugnato, nel dicembre 2016, la vicina Sirte dall’ISIS restano la colonna portante del governo virtuale di unità nazionale di Serraj.
Ma in pratica le brigate di Misurata, che sul campo sono anche la massima forza militare dell’esecutivo di Tripoli, sono accorse in aiuto di al Serraj solo una settimana dopo l’esplosione dei gravi scontri nella capitale del 27 agosto scorso, che hanno ucciso 60 persone. Quel che è peggio lo hanno fatto solo in minima parte: i comandi centrali non si dicono convinti di appoggiare ancora il premier in carica e stanno anzi coltivando rapporti sotterranei indicibili con il generale rivale Khalifa Haftar.
Il tradimento può presto staccare la spina ad al Serraj, cambiando la geografia politica della Libia come non accadeva dalla caduta di Gheddafi. L’esecutivo di Tripoli fu composto grazie al cartello delle forze islamiste e filo-islamiste di Alba libica (della capitale, Misurata e di diversi comuni libici), che al contrario delle forze armate del governo rivale guidato, nell’Est della Libia, dal generale Haftar, nel 2016 accettarono il compromesso dei negoziati dell’ONU in Marocco.
A Misurata si instaurò anche la missione italiana dell’ospedale militare, insieme con diverse unità dell’intelligence straniere, presenti anche per la guerra all’ISIS. E ad al Serraj e ai suoi alleati, diventati legittimi interlocutori dell’Occidente, iniziarono ad affluire finanziamenti ufficiali – oltre a quelli occulti alle milizie islamiste contro Gheddafi dal 2011 – dell’UE e dei principali governi occidentali. In Italia, e non solo, fecero scalpore i 5 milioni di euro che si raccontò inviati segretamente alla milizia alleata di Sabratha di Ahmad Dabbashi per il piano dell’allora ministro dell’Interno, e uomo d’intelligence, Marco Minniti, per fermare in Libia i migranti.
Gli appetiti delle milizie di Sabratha escluse dalla torta scatenarono una guerra nella cittadina, peggiore dei precedenti attacchi subiti dall’ISIS. La logica della marcia su Tripoli di questa estate delle milizie islamiste entrate in collisione con al Serraj è la stessa. Dalla nascita del governo Serraj, le brigate di Tripoli hanno guadagnato – con metodi criminali come il taglieggio e con l’appoggio dello stesso consiglio presidenziale riconosciuto dall’ONU – sempre più potere economico nelle istituzioni chiave della Banca centrale libica e della Compagnia nazionale del petrolio (NOC), controllando anche i vertici di diverse società petrolifere, delle infrastrutture e dei trasporti, nella capitale tornata centro del potere.
Nei quartieri che la Settima brigata ribelle di Tarhuna, a sud di Tripoli, e altre milizie saltate sul carro promettono di liberare dalla «corruzione e dal racket» a suon di cannonate, i gruppi armati della capitale o di milizie lì distaccate hanno creato un cartello delinquenziale che impone tasse ai residenti e alle aziende ancora aperte, nonostante i black out di 9 ore al giorno.
La razzia delle risorse della Libia da parte – in questo momento – soprattutto delle milizie incaricate dal governo Serraj della sicurezza nella capitale è illustrata dettagliatamente nella mappa del giugno 2018, ricostruita dal massimo esperto di gruppi armati libici e delle loro fluidissime alleanze, il ricercatore tedesco del German Institute for International and Security Affairs (SWP) Wolfram Lacher, in collaborazione con l’ex tecnico del ministero dell’Interno libico Alaa al Idrissi, destituito nel 2014 proprio dal nascente blocco islamista di Alba libica assaltò l’aeroporto di Tripoli.
Da allora gli islamisti hanno fatto il bello e il cattivo tempo nella capitale: un dominio del banditismo narrato con precisione a Internazionale dall’osservatore diretto, il regista tripolino Khalifa Abo Khraisse. Tre intraprendenti signori della guerra hanno progressivamente marginalizzato le brigate di Misurata e di altre località dagli affari nella capitale. E a loro, stufe e frustrate, nell’ultimo anno si è avvicinato il generale Haftar che ha sempre più esteso il suo controllo dei Comuni nell’Est e nel Sud della Libia. Con l’obiettivo finale della presa di Tripoli.
Non è nell’interesse dei francesi scatenare il caos a un passo dalle elezioni che l’Eliseo – in contrasto con l’Italia – vuole far tenere in Libia il 10 dicembre 2018. Ma in molti vedono nell’improvvisa marcia su Tripoli della Settima brigata lo zampino del generale Haftar e, dietro di lui, dell’intelligence francese che, per controllare i giacimenti petroliferi dell’ex colonia fascista, dal 2011 ha prima appoggiato le rivolte islamiste contro Gheddafi. Poi, con un doppio gioco sempre più evidente contro gli alleati nell’UE e nella NATO, Haftar che dalla Cirenaica guadagnava terreno armato e finanziato dall’Egitto, dagli Emirati Arabi e infine dalla Russia.
L’intelligence francese sta sia a Misurata sia con l’ex gheddafiano Haftar, che adesso convergono contro la lobby di Tripoli. Fonti contattate da Africa ExPress in Libia descrivono la più grave situazione di caos e guerriglia mai vissuta nei quartieri di Tripoli, assaltati in modo brutale dalla Settimana brigata che, negli anni precedenti, si era limitata a tenere in sicurezza la città di Tarhuna. La milizia ha sparato indiscriminatamente contro i civili e suoi rinforzi sarebbero presto affluiti da varie città.
Anche il comandante di Misurata della coalizione di Alba libica del 2014, Salah Badi, è a dar man forte a Tarhuna. Una situazione «molto complicata», ci raccontano dalla Libia, che potrebbe finire «molto male per Serraj». Dalla sua parte restano i misuratini della Brigata 301 di stanza nella capitale, coinvolti nel controllo di alcuni asset, e una parte sempre più ristretta di politici e militari di Misurata. Nel gennaio 2017 furono rapidi a soccorrere il governo di unità nazionale di Tripoli contro il tentato golpe dell’ex premier islamista Khalifa al Ghwell, che assaltò tre ministeri.
Una prima faglia evidente si era aperta nell’alleanza in disfacimento, ma la frangia era ancora minoritaria, la scissione controllabile. Un anno e mezzo dopo il quadro si è ancor più deteriorato, con ogni probabilità irrimediabilmente. A Misurata c’è chi si dice pronto a trattare non solo con Haftar, indicato per anni dagli islamisti come il padre di tutti i mali, vicino ai gheddafiani e dietro nientemeno che all’ISIS. Ma con il delfino di Gheddafi Saif al Islam, graziato dalla milizia di Zintan alleata con Haftar e in odore di candidatura politica.
Barbara Ciolli
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