Sandro Pintus
Firenze, 2 settembre 2018
Ma il leone non era tra le specie selvatiche protette? Certo, ma non quando è allevato in cattività. Con questo stratagemma, dal 2008 il Sudafrica fa un lucroso business derivante da trofei, denti, artigli e dalle ossa del “re della foresta”.
La denuncia arriva da diverse associazioni ambientaliste e da vari media tra i quali il National Geographic Magazine e il quotidiano britannico Independent che accusano l’ex Paese dell’apartheid di incoraggiare l’industria del maestoso felino africano.
La prova tangibile è che la ministra dell’Ambiente, Edna Molewa, lo scorso 16 luglio, senza nessuna consultazione pubblica, ha annunciato che nel 2018 l’export degli scheletri di leone passerà da 800 a 1500 all’anno. Una conferma della grande crescita della domanda.
La decisione di Molewa ha mandato su tutte le furie molte ong che si sono schierate contro questo business. Le “fattorie” spesso hanno anche l’hotel dove gli ignari clienti possono essere fotografati con i leoni convinti che sia gli adulti che i cuccioli un giorno potranno tornare nel loro habitat naturale.
La popolazione dei leoni nel continente nero, dai 450 mila degli anni Quaranta si è ridotta ormai a circa 20-30 mila esemplari, minacciati quotidianamente dal bracconaggio. In Sudafrica i parchi nazionali ne ospitano 2.600 ma ci sono più leoni in cattività che liberi nelle savane. Nei 260 allevamenti dell’ex colonia britannica, secondo l’ong Born Free, se ne contano oltre 8.000.
In un’inchiesta il quotidiano britannico Indipendent ha denunciato la truffa delle fattorie dei cuccioli di leone orfani. Tutto falso. Le leonesse vengono continuamente inseminate artificialmente e i piccoli, dopo pochi giorni sono allontanati dalle madri per diletto dei turisti che non vedono l’ora di farsi i selfie con i cuccioli.
Quando diventano più grandi, ma non ancora pericolosi, sono utilizzati per accompagnare i visitatori nelle passeggiate e quando sono adulti vanno incontro a un triste, amaro destino che niente ha a che fare con la savana africana.
La “canned hunt” (letteralmente caccia in scatola) viene chiamata lo sporco segreto dell’Africa o la vergogna del Sudafrica. L’ “industria del leone” alleva la Panthera leo per offrire ai facoltosi turisti un macabro divertimento. Il fotogiornalista e ambientalista Ian Michler, in collaborazione con Humane Society International nel 2014 ha girato un Blood Lions (Leoni insanguinati) documentario di denuncia sul tema che ha fatto il giro del mondo.
Clip di Blood Lions, documentario realizzato con la collaborazione di Humane Society International
È un crudele, atroce “sport” della serie “Ti piace vincere facile?”. Nella pratica diventa un tiro al bersaglio dove il leone, spesso drogato, è sbattuto in un’area ristretta e senza via di fuga.
Dopo aver pagato diverse migliaia di USD, una volta uccisa la fiera, il “giocatore” (se così si può chiamare) se ne torna a casa soddisfatto dove può appendere la sua testa come trofeo sulle pareti del soggiorno della villa.
Questo tipo di caccia, secondo gli ambientalisti è definita immorale e anti etica e contribuisce ad aumentare il bracconaggio. Il report “Trophy Hunting by the Numbers” (I numeri dei trofei di caccia) dell’ong americana Humane Society International (HSI) conferma che per ammazzare un leone in cattività il costo oscilla tra 10 e 20 mila USD. HSI riporta che, solo negli Stati Uniti nella decade tra il 2005 e il 2015, sono entrati circa 5.600 trofei di leone africano. La maggior parte di questi provengono dal Sudafrica.
Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
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