Cornelia I. Toelgyes
Quartu sant’Elena, 30 agosto 2018
Riek Machar, ex vice presidente del Sud Sudan ha lasciato tutti con il fiato sospeso, quando ieri ha annunciato che non avrebbe firmato l’accordo di pace volto a mettere un punto finale alla sanuinosa guerra civile che si sta consumando nel più giovane Paese del mondo dal 2013. Solo dopo estenuanti trattative e l’intervento del ministro degli esteri sudanese e capo dei negoziati di pace, El-Dirdeiry Ahmed, Machar ha promesso che avrebbe siglato il documento giovedì 30 agosto, salvo colpi di scena dell’ultimo momento.
Il principale gruppo d’opposizione, The Sudan People’s Liberation Movement-in-Opposition, del quale Machar è il leader, ha espresso delle riserve su alcuni punti dell’accordo difinitivo. Un’intesa di massima sulla suddivisione dei poteri è stata siglata all’inizio del mese, ma durante le successive trattative sono stati apportati dei cambiamenti, come il numero dei ministri, che inizialmente ne prevedeva trentacinque, ora saranno ben cinquantacinque. Non è ancora stato reso noto quante poltrone andranno a ciascun raggruppamento politico (Kiir-Machar-altri partiti all’opposizione).
In un breve comunicato il team di mediazione sudanese ha fatto sapere che i diversi punti dell’accordo finale criticati da Machar, non sono compresi nel mandato dei negoziati di Khartoum e per tanto dovranno essere esaminati dall’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD), i cui leader dovranno comunque approvare la stesura finale del documento.
Il conflitto è cominciato quando il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, ha accusato il suo vice Riek Marchar, un nuer, di aver complottato contro di lui, tentando un colpo di Stato. Sono così cominciati i combattimenti tra le forze governative e quelle degli insorti fedeli a Machar. I primi scontri si sono verificati il 15 dicembre 2013 nelle strade di Juba, la capitale del Paese, ma ben presto hanno raggiunto anche Bor e Bentiu. Vecchi rancori politici ed etnici mai risolti, non fanno che alimentare questo conflitto.
Dal 2013 ad oggi sono morte decine di migliaia di persone, oltre tre milioni hanno dovuto lasciare le loro case e i loro villaggi. Attualmente oltre il settanta per cento della popolazione necessita di assistenza umanitaria. Il conflitto ha portato con sé abusi dei diritti umani su larga scala nei confronti dei civili. A farne le spese sono sopratutto donne e minori. Violenze e abusi sessuali, reclutamento di bambini soldato, distruzione di ospedali, scuole, razzie delle scorte alimentari sono all’ordine del giorno. E secondo un rapporto di Famine Early Warning Systems Network alcune migliaia di persone sono esposte allo spettro della carestia.
A metà luglio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva imposto al Sud Sudan un embrago sulle armi fino al 31 maggio 2019 e sanzioni – divieto di lasciare il Paese e congelamento dei beni – contro due dei maggiori responsabili militari. La risoluzione era stata fortemente patrocinato dagli USA, rappresentati dal suo ambasciatore, Nikki Haley, e aveva ottenuto il minimo di nove voti per essere approvata: Costa d’Avorio, Francia, Kuwait, Olanda, Perù, Polonia, Svezia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, mentre Bolivia, Cina, Guinea Equatoriale, Etiopia, Kazakistan e Russia si erano astenuti.
La Harley ha motivato la necessità dell’embargo con queste parole: “Se vogliamo davvero aiutare la popolazione del Sud Sudan, dobbiamo fare in modo che le violenze cessino e dunque dobbiamo fermare il flusso di armi”.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail
@cotoelgyes
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