Appello di Don Zerai: “L’Italia della Costituzione faccia sentire la propria voce

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Migranti salvati da una nave ONG

 

imagesAgenzia Habeshia
Don Moussie Zerai
Roma, 11 agosto 2018

Appello – Lettera aperta
“L’Italia sta usando vite umane come strumento di pressione e contrattazione”. “Ancora una strage di braccianti africani vittime del caporalato in Italia” “Nell’Italia del 2018 la violenza razzista sta diventando routine”… Ecco, nelle ultime settimane l’Italia è stata al centro dell’attenzione della stampa internazionale quasi solo per questo genere di episodi. Esagerazioni o, peggio, una sorta di congiura contro il nostro Paese? Vale la pena fare alcune considerazioni
 
Migranti. L’Italia, in questi mesi, ha completato il programma di respingimento e di totale chiusura iniziato con il Processo di Khartoum firmato a Roma nel novembre 2014 (governo Renzi) e proseguito negli anni attraverso una serie di “patti attuativi” della esternalizzazione in Africa, il più a sud possibile, delle frontiere nazionali ed europee. Esternalizzazione che è l’essenza stessa della politica migratoria che si è deciso di attuare. Una tappa fondamentale è stato, in questo senso, il memorandum firmato tra Roma e Tripoli il 2 febbraio 2017 (governo Gentiloni, ministro dell’interno Marco Minniti), che ha aperto la strada ai provvedimenti presi dall’attuale governo Conte, ministro dell’interno Matteo Salvini. In particolare:
– Chiusura dei porti italiani alle navi delle Ong impegnate nelle operazioni di recupero e soccorso nel Mediterraneo: è l’ultimo atto della guerra contro le Ong iniziata dal governo precedente col ministro Minniti.
– Chiusura o comunque blocco dei porti, con conseguenti lunghissime soste in mare, in condizioni spesso difficilissime, per tutte le navi che abbiano salvato e preso a bordo profughi e migranti intercettati nelle acque internazionali
– Fornitura di altre 12 motovedette (dopo quelle consegnate nel 2017 dal ministro Minniti) alla Guardia Costiera di Tripoli, ignorando le pesantissime accuse che la investono da anni e completando così la delega totale alla Libia per lo svolgimento del “lavoro sporco” dei respingimenti
– Nuovo impulso alle trattative (avviate da circa due anni) con il Governo di Tripoli e con il Niger per blindare il confine libico sahariano e “prevenire” l’arrivo di altri profughi diretti verso la sponda sud del Mediterraneo, prevedendo anche l’invio di un contingente di soldati italiani
– Respingimenti di profughi in massa e contro la loro volontà, effettuati direttamente da navi italiane, in contrasto con il diritto internazionale, la Convenzione di Ginevra e la cosiddetta “legge del mare”, che prevedono di sbarcare i naufraghi “nel più vicino porto sicuro” (e la Libia non può certo definirsi tale) e di esaminare le richieste di asilo una per una, persona per persona, garantendo a ciascuno la più ampia tutela legale. Il caso è emerso con la nave Asso Ventotto ma si sospetta che ci siano almeno due altri episodi del genere.
Si tratta di provvedimenti che, per molti versi, segnano la “chiusura del cerchio”, in totale continuità con la politica dei governi precedenti. In più, rispetto al passato, si manifestano, anche ai massimi livelli della politica, atteggiamenti sprezzanti nei confronti dei disperati “in fuga per la vita” dal proprio paese e si registrano dichiarazioni violente, di sapore xenofobo e razzista.
Migranti salvati da una nave ONG
Migranti salvati da una nave ONG

 

L’inferno libico. Questo nuovo muro eretto nel Mediterraneo condanna i migranti a restare intrappolati nell’infermo della Libia, chiusi a migliaia in centri di detenzione che la stessa magistratura italiana ha paragonato a lager nazisti, sia che si tratti delle “prigioni” dei trafficanti, sia che si tratti dei campi gestiti formalmente dalle milizie governative. Lo hanno evidenziato innumerevoli inchieste delle principali Ong internazionali e gli stessi rapporti dell’Unhcr, dell’Oim e della missione Onu in Libia. Anzi, l’Oim è stata la prima a denunciare, nel marzo 2017, che era pratica comune organizzare nella piazza di Sabha, nel Fezzan, una vera e propria asta degli schiavi con uomini prelevati nei lager dei trafficanti, come poi ha documentato, mesi dopo la Cnn, con un filmato terribile. Che questa sia la situazione in tutta la Libia è fin troppo noto. Ma la politica italiana finge di ignorarlo. Non è molto migliore la condizione dei migranti in realtà come il Sudan, il Sud Sudan, l’Egitto, il Ciad e, almeno in parte, lo stesso Niger, scelto come sede di un futuro grande hub di smistamento dei profughi/migranti bloccati prima di entrare in Libia, espulsi dalla Libia e dall’Algeria o respinti dall’Europa.
Migranti africani in Libia
Migranti africani in Libia
 
 Il lavoro schiavo. Al muro nel Mediterraneo o in Africa si aggiunge, sempre più alto, un “muro” anche in Italia. Un muro fatto di clandestinazione forzata o di fatto, emarginazione, sfruttamento, caporalato. Ne sono vittime, in pratica, tutti i migranti: quelli con un regolare permesso di soggiorno, quelli in attesa che la loro richiesta di asilo venga esaminata e sono ospiti dei Cas, quelli che le attuali leggi in vigore hanno trasformato in “irregolari”. Tutti “fantasmi”: non persone senza diritti. Le recenti tragedie di Foggia – le vite di ben 16 braccianti africani spazzate via nel giro di appena tre giorni – sono soltanto la punta di un iceberg enorme: una frazione infinitesimale, per quanto drammatica, di un fenomeno che investe tutta l’Italia, dal nord al sud, dalla Puglia alla Campania, all’Agro Pontino e all’intero Lazio, alla Toscana, alla Pianura Padana, l’Emilia, la Romagna, il Piemonte, il Veneto, la Lombardia… In agricoltura ma non solo in agricoltura. C’entra spesso anche la criminalità organizzata, ma descrivere il problema unicamente come un capitolo dell’agromafia – come spesso si cerca di fare – è estremamente riduttivo. Il fenomeno è molto più ampio: coinvolge direttamente numerosissime aziende che fanno finta di non vedere e di non sentire. E sicuramente non parlano. Il fenomeno investe l’intero Paese ed appare ormai un vero e proprio sistema, funzionale ad una larga fetta dell’economia nazionale.
E’ qui il punto. Se non si affronta il problema in questi termini non ci sarà soluzione. E suoneranno falsi le promesse e gli impegni presi, a vari livelli, anche in occasione delle ultime tragedie. False persino le lacrime che si sono spese.
 
Il razzismo. Si moltiplicano gli episodi di intolleranza e razzismo. Sempre più spesso e in forme sempre più violente, incluso l’uso di armi da fuoco. Si è arrivati a sparare persino contro una bambina rom di appena un anno e sul web ci sono stati numerosissimi commenti di “giustificazione”: c’è perfino chi è arrivato a dire che comunque quella bambina crescerà e diventerà “una ladra come tutti i rom”. E c’è  chi si è ispirato alle “ruspe” che l’attuale ministro degli interni ha più volte vantato come unica soluzione per risolvere il problema dei campi di rom e sinti. Quasi sempre, però, anche per gli episodi più gravi, si è parlato, alla fin fine, di “bravate” o addirittura di “goliardate”: quasi di scherzi un po’ “spinti”. Dando, di fatto, una giustificazione alla violenza. Lo stesso Governo, con alcuni dei suoi ministri più autorevoli si è affrettato a negare che esista un “problema razzismo”. “Il razzismo è solo nella propaganda di avversari e media”, hanno detto. Eppure l’escalation di episodi, gravi e meno gravi, che si è avuta dall’inizio dell’anno, con una impennata dopo le ultime elezioni, ha pochi precedenti.
 
Da tutto questo non può che emergere l’immagine di un’Italia sorda, chiusa e avvitata su se stessa, egoista, intollerante, xenofoba. Un’Italia che – come durante il fascismo – torna a concepire una società che divide, classifica, esclude, discrimina, perseguita e nella quale i diritti fondamentali dell’uomo perdono valore perché qualcuno conta più di qualcun altro e “viene prima”. Un’Italia dove si considera normale ed anzi desta consenso che un ministro possa dire: “Espelleremo tutti i rom stranieri. Gli italiani no: quelli purtroppo dobbiamo tenerceli proprio perché sono italiani”. Un’Italia che comincia ad essere guardata con preoccupazione, come si evince da vari servizi della stampa estera.
Certamente c’è anche un’altra Italia. Un’Italia aperta a tutti e che non dimentica le proprie antiche tradizioni Cristiana di solidarietà, confronto e amicizia. Un’Italia che rifiuta la macchina della “costruzione del diverso” e del diverso come “nemico”, che si è rimessa in moto. Un’Italia capace di ascoltare le ragioni dell’altro e disposta a mobilitarsi in difesa degli ultimi. Un’Italia, in definitiva, che si identifica con forza nei valori del Vangelo, di libertà, uguaglianza, giustizia sociale che sono il fondamento della Costituzione Repubblicana, nata dalla Resistenza e dalla lotta antifascista e da uomini e donne di fede, di cui ricorre il settantesimo anniversario proprio quest’anno. Ma è un’Italia che finora è rimasta troppo spesso in disparte o non ha saputo muoversi compatta per arginare la pericolosa deriva che stiamo vivendo.
E’ tempo, allora, che tutti coloro che si riconoscono in questa Italia facciano sentire la propria voce. Tutti insieme.  Stiamo vivendo una fase storica nella quale non si può restare “da parte” o, peggio, indifferenti: ci si deve schierare perché anche l’indifferenza rende complici. La posta in gioco è enorme. Certo, riguarda in via più diretta l’esistenza e il futuro dei disperati in fuga per la vita. Ma riguarda anche la tutela dei valori fondanti della nostra democrazia. Perdere questa battaglia o, peggio ancora, rassegnarsi e rinunciare a combatterla, significa minare il nostro stesso modo di “stare insieme”. E avviare l’Italia, ma forse anche l’Europa, verso un qualcosa che, al massimo, potrà essere una sorta di post democrazia.
Don Mussie Zerai