Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 14 agosto 2018
Sono una quarantina le persone barbaramente uccise dal controverso corpo di polizia Liyu – creato nel 2007 per contrastare la ribellione di Ogaden National Liberation Front – nella regione Oromia, nel distretto di Hararghe est.
Negeri Lencho, portavoce del governo regionale dell’Oromia, ha fatto sapere ieri mattina che uomini appartenenti ad un gruppo paramiltare, pesantemente armati, provenienti dalla regione somala hanno ammazzato almeno quaranta persone appartenenti all’etnia oromo, molti altri sono stati feriti. Tra le vittime ci sarebbero anche donne, bambini ed anziani.
Autorità del governo centrale sostengono che l’attacco potrebbe essere collegato a quanto avvenuto la scorsa settimana nella regione somala. In quell’occasione alcuni funzionari regionali e il governatore Abdi Mohamoud Omar sono stati costretti a rassegnare le dimissioni. Omar era stato accusato recentemente da Human Rights Watch di abusi e torture effettuate con l’aiuto del controverso corpo di polizia Liyu. E anche Amnesty International aveva chiesto alle autorità di Addis Ababa di sciogliere immediatamente il corpo paramilitare della regione somala, formato dal governo regionale come forza anti-terrorista, ma in molte occasioni accusata di complicità nei conflitti etnici tra somali e oromo.
I primi scontri sono scoppiati lo scorso settembre al confine tra le due regioni che si accusano reciprocamente di brutalità. Le autorità dell’Oromia lamentano come il territorio sia stato attaccato più volte da forze paramilitari della regione vicina. Le insinuazioni sono state respinte, anzi, gli oromo son stati accusati di attaccare i suoi residenti.
Le regioni somala e oromia sono le più estese dell’Etiopia. I conflitti tra le due popolazioni nelle zone di confine – lungo oltre millequattrocento chilometri – per questioni di risorse, pozzi e pascoli non sono nuove. I somali sono per lo più allevatori e pastori, mentre la maggior parte degli oromo si occupano di agricoltura. Le dispute tra popolazioni agro-pastorali non sono mai di facile risoluzione.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 3 agosto scorso, a causa del conflitto tra contadini e pastori oltre un milione di persone sono state costrette a lasciare le loro case e i propri villaggi. Gli sfollati hanno raccontato di aver assistito a violenze indescivibili durante gli attacchi: uccisioni indiscriminate, stupri, razzie di viveri e case incendiate. “La maggior parte degli sfollati hanno perso tutto, ma sono vivi”, ha sottolineato Andrej Mahecic, portavoce dell’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR) durante una conferenza stampa all’inizio di questo mese.
A giugno alcune organizzazioni umanitarie e il governo etiopico avevano stanziato fondi per aiuti di prima necessità per ben ottocentoventimila persone e garantito la loro protezione.
Il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, si era recato a Giggiga, capoluogo della regione somala, subito dopo il suo insediamento, proprio a causa dei violenti scontri inter-etnici. In tale occasione Abiy aveva parlato in pubblico con la popolazione e aveva evidenziato che: “Una tragedia del genere non si deve più verificare”. Aveva quindi chiesto la collaborazione di tutti per trovare in breve tempo una soluzione sostenibile e durevole.
Durante il suo primo discorso da premier, dopo il suo giuramento che si è tenuto il 2 aprile ad Addis Ababa, Abiy aveva richiamato l’attenzione degli etiopici sulla necessità dell’unità del Paese.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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