Franco Nofori
Mombasa, 14 agosto 2018
Costata poco meno di tre miliardi di euro; aspramente criticata dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale perché incrementava il già eccessivo debito pubblico del Kenya stimato nel 55 per cento del PIL; contestata dal personale africano per gli atteggiamenti razzisti dei colleghi cinesi; criticata dal pubblico per l’inspiegabile distanza delle stazioni dai centri urbani, la nuova ferrovia, realizzata grazie a un investimento cinese, doveva costituire l’orgoglio nazionale del Paese ed è invece diventata oggetto dell’ennesimo scandalo per corruzione.
Il procuratore della repubblica, Noordin Mohamed Haji, ha ordinato la scorsa settimana, l’arresto di diciotto alti funzionari per essersi appropriati d’ingenti fette di pubblico denaro, alterando varie operazioni connesse alla realizzazione del progetto ferroviario. Tra questi emergono due nomi d’indubbio rilievo: quello di Mohammed Abdalla Swazuri, presidente della National Land Commission e quello di Atanas Kariuki Maina, amministratore delegato della ferrovia incriminata. Noordin avrebbe artificiosamente aumentato i compensi riconosciuti ai proprietari dei terreni espropriati per il passaggio della ferrovia, mentre Atanas avrebbe a sua volta gonfiato altri costi della gestione generale.
Al momento non risulterebbero coinvolgimenti di funzionari cinesi nel malaffare, pur se questi sono presenti in gran numero nella nuova ferrovia, ma gli accertamenti sono ancora in corso e ci si attendono altri sviluppi. Appare del resto difficile ritenere che i partner orientali fossero totalmente all’oscuro di ciò che avveniva sotto i loro occhi, visto che la conduzione del progetto è ancora saldamente nelle loro mani. Peraltro i proventi attesi per la gestione della nuova ferrovia, si stanno rivelando molto inferiori a quelli preventivati, forse proprio a causa della scomoda localizzazione delle stazioni che costringe gli utenti a sobbarcarsi, oltre al costo del biglietto, ulteriori spese e perdite di tempo per raggiungere le rispettive destinazioni a Nairobi e Mombasa.
In uno dei suoi più recenti rapporti, la Banca Mondiale aveva già stimato che circa un trenta per cento delle entrate del Kenya era falcidiato dalla corruzione e solo nell’anno corrente, le malversazioni di questo tipo avevano sottratto ai contribuenti molti milioni di euro. Solo tre mesi fa, un altro mega-scandalo aveva sconvolto l’assetto dell’organizzazione paramilitare del Kenya’s National Youth Service per un ammanco di poco inferiore agli ottanta milioni di euro. “L’Operazione Trasparenza” lanciata dal presidente Uhuru Kenyatta, poco dopo la sua rielezione, esprimerebbe un intento certamente lodevole, se non fosse che lo stesso governo da lui presieduto, non è stato in grado di fornire valida prova per circa quattrocento milioni di dollari spesi, non si sa bene a quale scopo.
La sostanza è che malgrado ripetute e autorevoli dichiarazioni di voler combattere la corruzione, questa cresce e si solidifica imperterrita anno dopo anno, ma soprattutto il peggio in questo sconfortante scenario, è che mai i vari scandali vengono compitamente sviscerati. Non lo fanno le autorità e neppure lo fanno i media locali che, dopo aver fornito notizia del fatto, abbandonano lo stesso al suo destino, senza tenere il pubblico aggiornato sugli sviluppi e sulle conclusioni dello stesso. Recentemente abbiamo letto d’illeciti conferimenti di visti d’ingresso, di licenze commerciali non dovute, di cittadinanze improprie, di rilascio di porto d’armi a persone prive dei necessari requisiti… In questi casi si sa sempre chi è il corruttore, ma quasi mai viene rivelato il nome del corrotto.
Uno dei più significativi riscontri che fa mettere in dubbio la reale volontà di combattere la corruzione, è dato dal sistema che sanziona le infrazioni al codice della strada. Un tempo l’agente di polizia elevava un verbale, sul quale il presunto contravventore, aveva diritto di far riportate le proprie osservazioni. Qualora, invece, non contestasse l’addebito, poteva semplicemente dichiarare tale intenzione in un apposito quadro sul retro del verbale e quindi spedirlo alla sede giudiziaria competente, questa gli avrebbe poi notificato a mezzo posta l’ammontare della sanzione, che avrebbe potuto essere pagata in qualsiasi ufficio postale. Questo sistema assicurava al Tesoro di Stato il necessario introito e non consentiva – o quantomeno limitava – il fenomeno della bustarella.
Oggi, invece, questa ragionevole procedura non esiste più e l’agente di polizia ha assunto un’autorità eccezionale. Se a un abitante di Nairobi che sta andando a Mombasa, viene contestata un’infrazione mentre è in transito nella cittadina di Voi, dovrà presentarsi allo ore otto del mattino successivo alla corte locale. Sarà quindi costretto a pernottare in zona, sempre che non sia stato contravvenuto il venerdì poiché, in questo caso, dovrà spendere a Voi, l’intero week-end. E’ comprendibile che in questa ipotesi, lo sventurato automobilista non potrà fare altro che aprire il portafoglio e adempiere all’antica pratica del kitu kidogo (bustarella). Sarebbe però interessante confrontare il volume delle sanzioni incassate dall’erario, prima della modifica del sistema con quelle incassate oggi. Ma perché farlo, se questo non interessa a nessuno?
Franco Nofori
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