Dal Nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 14 agosto 2018
Erano partiti per il Qatar, reclutati da un’agenzia di collocamento di Mombasa, con la promessa di un impiego compensato da un’adeguata retribuzione. Invece ottanta cittadini kenioti si sono trovati lontano da casa a vedersela con tutt’altre condizioni: costretti a lavori duri, trattati come schiavi, senza le necessarie protezioni di sicurezza, con paghe miserevoli e spesso neppure regolarmente erogate. Un girone infernale, insomma, che ha fatto rapidamente franare ogni speranza di poter migliorare le proprie condizioni nel piccolo ma opulento emirato arabo.
Quest’attività di reclutamento di forze lavoro a basso costo, da destinare ai ricchi paesi arabi, non è molto diversa dal caporalato che l’Italia sta dolorosamente sperimentando, ma in questo caso il traffico di esseri umani – perché di questo si tratta – assume connotazioni ancora più sconcertanti, sia per l’indegno trattamento che gli africani ricevono una volta collocati nel luogo di lavoro, sia per le entusiastiche e sovrastimate aspettative delle persone che vengono reclutate. Si tratta in larga misura di uomini e donne di religione islamica che, andando a lavorare in paesi che praticano la stessa fede, pensano di poter godere di un trattamento privilegiato.
Quest’aspettativa appare abbastanza curiosa, giacché non si tratta di un commercio umano iniziato solo recentemente, ma di un business abbietto che è in corso da parecchi decenni. Inizialmente il reclutamento avveniva a Nairobi. Però le continue testimonianze di uomini brutalizzati, donne soggette a ripetuti abusi sessuali, persone private dei documenti e costrette a cibarsi degli avanzi lasciati nel piatto del “padrone”, avevano finito per creare una diffusa consapevolezza tra la popolazione della capitale, che non si trattava di un’opportunità di lavoro. Gli sfruttatori di questo traffico, avevano visto così le loro entrate declinare rapidamente. Invece di rinunciare al loro business si erano trasferiti sulla costa, una zona ancora “vergine” e per di più con una molto più consistente comunità islamica.
Le destinazioni di questo traffico sono quasi tutte nei Paesi della penisola araba ed è singolare che quanto più gli africani ne diventano consapevoli, tanto più il proselitismo islamico fiorisce nel continente a danno del cristianesimo. L’Africa, ahimè, vive solo nel presente e la sua scarsa memoria storica le impedisce di formarsi una razionale visione del proprio passato. Questo la rende distratta e incapace di valutare realisticamente gli eventi che la riguardano. Basterebbe riferirsi al trattamento che i “fratelli in Allah” libici riservano agli africani quando questi raggiungono i loro confini, per non parlare dell’attività negriera che i vari sultanati arabi hanno impietosamente gestito per secoli.
Nel caso specifico questi ottanta cittadini del Kenya, in prevalenza destinati a lavori domestici presso ricche famiglie di Doha, la capitale del Qatar, hanno sospeso la loro attività perché per quattro mesi consecutivi, non hanno ricevuto le retribuzioni concordate. Alcuni di loro si trovavano nell’Emirato da oltre cinque anni. Abbandonato il lavoro, sono stati costretti a vivere in strada, mendicando un po’ di cibo e senza la possibilità di far valere le proprie ragioni. Non hanno il denaro necessario per rientrare in Patria e a qualcuno di loro era anche stato ritirato il passaporto. Erano stati ingaggiati da un’agenzia di Mombasa che risulta chiusa da tempo e il cui titolare nigeriano è scomparso, così com’è scomparso il suo corrispondente in Qatar. Hanno provato a portare il caso in tribunale, ma le spese per la rappresentanza legale e le difficoltà linguistiche per comunicare, li hanno sconfitti.
Il governo del Kenya ha annunciato che sta organizzandosi per effettuare il rientro dei propri cittadini, ma più di dieci giorni sono già passati e i poveretti sono ancora bloccati nella capitale araba, dormendo sotto i ponti e frugando tra i rifiuti per sopravvivere. Tanto in patria , quanto in Qatar, dei loro diritti, pare non volersene occupare nessuno.
Franco Nofori
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