Andrea Spinelli Barrile
Potenza, 4 agosto 2018
In Zimbabwe ha vinto la democrazia o lo status quo? È una domanda complessa, che richiede una risposta complessa, e i nostri lettori ci scuseranno.
Durante la notte tra il 2 e il 3 agosto la commissione elettorale dello Zimbabwe, ZEC, ha proclamato vincitore delle elezioni presidenziali il leader dello ZANU-PF (Zimbabwe African National Union – Patriotic Front) Emmerson Mnangagwa, presidente in pectore dopo la detronizzazione di Robert Mugabe, avvenuta pacificamente ma manu militari nel novembre 2017. Mnangagwa, 76 anni tra un mese e soprannominato “Coccodrillo” già durante la guerra di indipendenza contro i bianchi, ex-fedelissimo, ministro e vicepresidente sotto Mugabe, è quindi il “nuovo” presidente dello Zimbabwe.
Le elezioni del 30 luglio scorso, le prime in 38 anni senza l’ingombrante e soffocante figura di Mugabe, si sono svolte senza violenze, senza intimidazioni e in un clima tutto sommato di grande speranza. Non è un’affermazione campata per aria o ottimistica: è quanto è emerso in una conferenza stampa tenutasi ad Harare il 1° agosto, durante la quale il capo missione degli osservatori internazionali inviati dall’Unione Europea ha elogiato le procedure di voto e sottolineato come questo si sia svolto sostanzialmente senza alcun problema da evidenziare. Tutte le precedenti tornate elettorali, dal 1980 ad oggi, erano state caratterizzate da violenze, intimidazioni e omicidi politici prima, durante e dopo il voto.
I problemi, tuttavia, sono emersi durante i conteggi. Poche ore dopo la chiusura delle urne, mentre ancora non erano stati resi noti i risultati delle elezioni legislative del Parlamento – accorpate alle presidenziali – il leader del principale partito d’opposizione, Nelson Chamisa dell’MDC (Movement for Democratic Change), ha proclamato sui social media la propria “vittoria trionfale”, un tweet del 31 luglio in seguito al quale i suoi sostenitori si sono recati di fronte alla sede del partito, nel Central Business District di Harare, per festeggiare.
I festeggiamenti si sono però trasformati in proteste nel giro di pochi minuti: Chamisa e l’MDC infatti hanno accusato la ZEC di frodi elettorali e lo ZANU-PF di intimidazioni, lamentando gravi ingerenze durante il voto e la sostanziale nullità dell’intera tornata elettorale. I sostenitori dell’MDC, arrabbiati, hanno inscenato una manifestazione spontanea che dalla sede del partito si è diretta verso la sede della commissione elettorale, che si trova in un palazzo moderno a poche centinaia di metri, protetto da un altissimo cancello di ferro e dalla polizia in tenuta antisommossa. Durante questa manifestazione, con l’esercito ancora ben chiuso all’interno delle caserme, i manifestanti hanno dato alle fiamme alcune auto e scandito slogan contro lo ZANU, inneggiando al loro leader Chamisa e chiedendo alla ZEC di smettere di temporeggiare e di proclamare il vincitore.
Alle proteste la polizia ha risposto con il lancio di lacrimogeni e, sostenuta dai militari giunti sul posto, con diverse cariche. Ci sono decine di video, pubblicati sui social, che ritraggono i soldati sparare lacrimogeni e proiettili veri ad altezza uomo, una risposta durissima – se valutata con gli standard occidentali – a una manifestazione politica. Va però anche sottolineato un altro aspetto importante, che fino a questo momento nessuno ha voluto evidenziare: l’esercito ha sì reagito con veemenza, c’è anche scappato il morto (alcune fonti, non verificate, parlano però di 5 morti), ma anche con un certo controllo. In alcuni dei video pubblicati sui social media infatti si vedono soldati che fermano alcuni kombi, i pulmini privati usati come trasporto pubblico (in Kenya e Tanzania sono più noti con il nome di matatu), fanno scendere gli autisti e li riempiono di frustate ma in altrettanti video si vedono ufficiali prendere a frustate i soldati che sparano ad altezza uomo e che usano violenza contro i civili. Non si vuole qui giustificare un’operazione militare, soprattutto non avendo visto l’azione sul posto, ma è necessario riflettere sul fatto che in un paese, quale è lo Zimbabwe, che esce da una dittatura semi-militare di 37 anni la risposta delle forze armate è stata controllata se paragoniamo i fatti recenti con ciò che si è visto in passato.
Di fronte alle violenze l’MDC, dopo il fuggi fuggi generale e l’istituzione di un coprifuoco de facto, ha ulteriormente alzato i toni accusando l’esercito di voler continuare a detenere il potere e il governo di essere dittatoriale: a novembre 2017 la stessa opposizione, durante il colpo di stato di velluto, plaudiva all’opera di liberazione di quello stesso esercito che oggi attacca per la repressione.
In seguito alle proteste, mentre molti cittadini dello Zimbabwe sui social e non solo invocavano calma e pace, gli osservatori internazionali hanno organizzato una nuova conferenza stampa per chiedere alla ZEC di velocizzare i conteggi e di restringere i tempi. La sera del 2 agosto, con la stampa convocata alla sede dello ZEC alle 8 di sera e i risultati resi noti dopo oltre 4 ore di attesa, la commissione ha annunciato la vittoria di Emmerson Mnangagwa ma pochi minuti prima il segretario dell’MDC aveva improvvisato un comizio, proprio nella sala stampa della ZEC, accusando la commissione di brogli e aggettivando le elezioni come “fake”. Il tutto, va ribadito perché è l’elemento più importante, prima ancora che i risultati fossero resi noti.
Sono accuse pesanti quelle dell’MDC, accuse che vengono ribadite ancora oggi, nel momento in cui stiamo scrivendo, ma che per il momento non sono state provate: nessun documento, nessuna evidenza, è stata prodotta da chi accusa la Zec di frode. E questo rende molto poco credibili le proteste di Chamisa e dei suoi, proteste che sono fuori tempo e prive di supporto documentale, di contesto.
Lo scetticismo è d’obbligo in Zimbabwe – scettici sono anche diversi sostenitori dello ZANU con cui siamo in contatto – ma in democrazia è importante non lasciarsi prendere dalla foga della sconfitta: Chamisa ha chiuso le presidenziali con il 44.35% delle preferenze, non si può definire altro che “un successo”, e l’MDC avrebbe sicuramente ottenuto un risultato migliore se non fosse stato diviso al suo interno. In diversi seggi infatti il partito ha presentato, in opposizione al candidato dello ZANU, anche due candidati in lotta tra loro per un singolo seggio parlamentare e questo, inevitabilmente, ha provocato la frammentazione del voto. Se è vero che l’MDC ha ottenuto risultati notevoli nelle aree urbane, soprattutto nella sua roccaforte Bulawayo e nella capitale Harare, nelle aree rurali lo ZANU ha vinto per la compattezza delle candidature.
Mnangagwa ha conquistato la presidenza evitando il ballottaggio grazie a un misero 0,8%, un pugno di voti che non bastano a dimostrare eventuali brogli o trucchi. Ci vogliono i documenti. L’MDC, che ha annunciato ricorso in Tribunale, ha ora un consistente numero di eletti in Parlamento e 5 anni per trovare una nuova dimensione politica più compatta: Mnangagwa avrà 81 anni alle prossime elezioni e quello che è certo è che in un Paese in cui l’età media è di 19 anni il gabinetto del presidente, dove potrebbe trovarsi il suo futuro erede, non potrà essere anagraficamente troppo anziano. Sicuramente il presidente dovrà mettere mano al potere dell’esercito, sicuramente dovrà ridimensionare la dimensione militare della vita politica zimbabweana, sicuramente dovrà aprire il Paese agli investimenti esteri: su quest’ultimo tema ha già parzialmente riavvicinato il Paese al Commonwealth britannico, facendo arrabbiare gli Stati Uniti (e con le sanzioni in ballo scegliersi il partner giusto è vitale) ma dando grandi speranze agli imprenditori locali.
Andrea Spinelli Barrile
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