Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 31 luglio 2018
La notte scorsa due giornalisti russi e uno di nazionalità ucraina sono stati brutalmente ammazzati da un gruppo di uomini armati nella Repubblica Centrafricana, dove si consuma una sanguinosa guerra civile nel quasi totale silenzio del mondo.
La notizia è stata resa nota Henri Depele, sindaco di Sibout, situata a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale Bangui. L’autista dei tre giornalisti è sopravvissuto all’imboscata e ha riferito che la vettura è stata attaccata a ventitre chilometri da Sibout. I giornalisti sono morti sul colpo. Albert Yaloke Mokpeme, portavoce della presidenza, ha fatto sapere che tre uomini, verosimilmente europei, sono stati ritrovati dalle forze dell’ordine. Il portavoce ha sottolineato che la loro nazionalità e professione risultano sconosciuti. Ma una fonte della polizia, che non ha voluto rivelare la sua identità per motivi di sicurezza, ha rivelato che sono stati ritrovati tessere identificativi rilasciati dalla stampa russa e uno dei giornalisti morti aveva con sè un biglietto aereo Mosca – Casablanca – Bangui.
I tre giornalisti, molto conosciuti nel loro Paese, Aleksandr Rastorguev Orkhan Dzhemal e Kirill Radchenko, si trovavano a Sibout per realizzare un servizio inchiesta sugli istruttori russi e la società militare privata Wagner nella Repubblica Centrafricana.
Dall’inizio dell’anno Faustin-Achange Touadéra , presidente del CAR e Vladimir Putin hanno iniziato una stretta collaborazione. Mosca potrà godere di licenze per lo sfruttamento minerario, in cambio metterà a disposizione equipaggiamento industriale, materiale per l’agricoltura e altro. Insomma, anche il Cremlino, come molti altri Paesi, è solamente interessato alle ricchezze del sottosuolo del Centrafrica e, quando serve, come in questo caso, non esita chiedere appoggio all’ONU, che ha concesso al Cremlino una parziale abolizione sull’embargo delle armi – embargo che era stato imposto alla Repubblica Centrafricana dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con risoluzione numero 2399 (2018).
La crisi della Repubblica Centrafricana comincia alla fine del 2012: il presidente François Bozizé dopo essere stato minacciato dai ribelli Séléka (in maggioranza musulmani) alle porte di Bangui, chiede aiuto all’ONU e alla Francia. Nel marzo 2013 Michel Djotodia, prende il potere, diventando così il primo presidente di fede islamica della ex-colonia francese. Dall’ottobre dello stesso anno i combattimenti tra gli anti-balaka e gli ex-Séléka si intensificano e lo Stato non è più in grado di garantire l’ordine pubblico, Francia e ONU temono che la guerra civile possa trasformarsi in genocidio. Il 10 gennaio 2014 Djotodia presenta le dimissioni e il giorno seguente parte per l’esilio in Benin. Il 23 gennaio 2014 viene nominata presidente del governo di transizione Catherine Samba-Panza, ex-sindaco di Bangui.
Il 15 settembre 2014 arrivano anche i caschi blu dell’ONU della Missione Multidimensionale Integrata per la Stabilizzazione nella Repubblica Centrafricana. Le forze dell’Unione Africana del contingente MUNISCA, presenti con 5250 uomini (850 soldati del Ciad hanno dovuto lasciare il Paese qualche mese prima, perché accusati di aver usato la popolazione come scudi umani) affiancano le truppe francesi dell’operazione Sangaris. Il 31 ottobre 2016 la Francia ritira ufficialmente le sue truppe dell’operazione Sangaris, che si è protratta per ben tre anni.
Ancora oggi oltre ottocentocinquantamila persone non hanno ancora potuto fare ritorno nelle proprie case: 383.000 sono sfollati, mentre 468.000 hanno cercato rifugio nel Ciad, nel Congo-K, nel Congo Brazzaville e nel Camerun, che ha accolto oltre la metà dei cittadini centrafricani in cerca di protezione. Secondo l’UNICEF, il quarantuno per cento dei bambini al di sotto dei cinque anni soffre di malnutrizione cronica e si stima che dal 2013 ad oggi tra sei e diecimila minori siano stati reclutati dai vari gruppi armati come bambini-soldato.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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