Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 15 luglio 2018
Pochi giorni fa è sceso dalla nave Dicotti della Guardia Costiera italiana anche un giovane yemenita, uno dei sessantasette profughi giunti a Trapani. Mentre lui era in attesa dell’approdo del natante, nel suo Paese sono morte altre quarantacinque persone, colpite dalle bombe della coalizione saudita. Oltre trenta huti sono morti vicino a Tahita, sulla costa occidentale, mentre altri quindici sono stati uccisi nei pressi di Alab, a nord di Sa’da, nel nord-ovest del Paese.
E chi sopravvive alle incursione aeree o agli attacchi via terra dei militari della coalizione, viene arrestato, torturato, a volte fino alla morte. Lo ha rivelato un rapporto di Amnesty International, intitolato “Solo Dio sa se è ancora vivo” pubblicato proprio in questi giorni, puntando il dito sugli Emirati Arabi Uniti. Questi, infatti, sono un alleato chiave della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che dal marzo 2015 prende parte al conflitto armato dello Yemen. Arresti extragiudiziali, sparizioni, abusi di ogni genere, in quelle galere segrete, completamente fuori dal controllo del presidente yemenita, Abd Rabbu Mansour Hadi, e del suo governo.
Naturalmente gli Emirati negano qualsiasi coinvolgimento e respingono le accuse, anche se le prove prodotte dalla ONG con base a Londra indicano il contrario.
Saleh al-Gabwani, il ministro dei trasporti, ha fatto sapere qualche giorno fa che l’aeroporto di Aden – la capitale provvisoria del governo di Hadi, riconosciuto a livello internazionale – è sotto io totale controllo delle forze di sicurezza leali agli Emirati Arabi Uniti. Non solo, ad eccezion fatta del palazzo presidenziale, tutta la città è sotto il loro comando. Il ministro ha precisato: “Certo, ci hanno aiutato molto in passato, ma ora non possiamo nemmeno recarci all’aeroporto senza la loro autorizzazione, altrettanto per entrare e uscire da Aden”.
Il conflitto interno dello Yemen vede contrapposto due fazioni: da un lato gli huti, un movimento religioso e politico sciita, che appoggiano il presidente destituito, dall’altro le forze del presidente Mansur Hadi, rovesciato dagli huti con un colpo di Stato nel gennaio 2015. La coalizione saudita entra nel conflitto nel marzo 2015 a sostegno di Hadi, che a tutt’oggi è riconosciuto dalla comunità internazionale come capo di Stato. Il vecchio leader Saleh è stato ucciso a metà dicembre dello scorso anno dagli huti, con i quali lui era alleato ed ora si combatte una guerra civile dentro la guerra civile.
Un conflitto poco seguito dai media internazionali, eppure dall’inizio dei sanguinosi contrasti sono morte ben oltre diecimila persone, tra loro anche più di duemila bimbi, senza contare migliaia e migliaia di feriti.
Henriette H. Fore, direttore esecutivo dell’UNICEF, si è recata lo scorso giugno nello Yemen e la sua analisi del Paese è a dir poco catastrofica e a farne le spese sono sopratutto i più piccoli. “Dal 2015 ad oggi oltre la metà degli ospedali non sono più operativi. Millecinquecento scuole non sono più utilizzabili: o sono state distrutte durante i raid aerei, oppure sono stati trasformati in rifugi. In questo Paese si sta consumando un masscaro che non ha alcuna giustificazione. Undici milioni di bambini necessitano di aiuti e assistenza”.
Uno Stato lontano dall’Europa, dall’Italia, che, pur non essendo direttamente implicata in questo conflitto, porta le sue responsabilità. Da anni il nostro governo vende ordigni fabbricati dalla RWM Italia (Rheinmetall) a Domusnovas in Sardegna, che partono con una certa regolarità dal porto di Cagliari alla volta del regno saudita .
In un suo recente articolo, Giorgio Beretta, ricercatore di OPAL (Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa), ha spiegato che bombe del tipo MK 82, MK83 e MK84, prodotte nella piccola fabbrica della RWM Italia nell’Iglesiente, per conto del colosso tedesco Rheinmetall, sono state spedite in Arabia Saudita per un totale di oltre quarantacinque milioni di euro nel 2017.
Cornelia I. Toelgyes
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@cotoelgyes
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