Dal Nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 9 luglio 2018
Si è finalmente conclusa giovedì scorso, presso la corte di Mombasa, l’incresciosa controversia sulla morte di Alexander, figlio del lord britannico Nicholas Monson, barone nella contea del Lincolnshire. Gli accertamenti si sono trascinati per sei anni nel tentativo di accertare le reali cause del decesso del ventottenne erede al prestigioso titolo nobiliare. La prima versione dei fatti, a suo tempo fornita dalla polizia di Diani, località turistica a sud di Mombasa, attribuiva la morte del giovane all’assunzione di un’overdose di stupefacenti.
Versione che il magistrato capo dell’alta corte di Mombasa, Richard Odenyo, chiudendo martedì scorso un’inchiesta iniziata nel 2015, ha recisamente smentito attribuendo, invece, il decesso, alle violente percosse subite dalla vittima per opera di quattro agenti di polizia: Naftali Chege, John Pamba, Charles Munyiri e Ismael Pamba. Gli stessi che, nel maggio 2012, avevano arrestato il giovane a Diani Beach dove l’uomo aveva trascorso la serata con alcuni amici. La ragione dell’arresto, stando alla versione ufficiale di allora, era che lo avevano trovato mentre fumava marijuana a che nel corso di una perquisizione, nelle sue tasche era stato trovato un mozzicone di sigaretta della stessa sostanza.
I primi sospetti sulla versione fornita dalla polizia di Diani, erano sorti a seguito dell’esame tossicologico indipendente eseguito subito dopo il decesso. L’analisi rivelava che nessuna traccia di droga era stata rinvenuta sul corpo del giovane, mentre un patologo reclutato dalla famiglia, rilevava, invece una grave contusione cranica che lui attribuiva all’urto violento e fatale con un pesante corpo contundente. Era ovvio che questi riscontri gettassero una luce inquietante sull’accaduto facendo insorgere più di un dubbio sul reale svolgimento dei fatti.
Uno degli amici di Alexander, arrestato con lui, ma rilasciato poco dopo, riferiva che il giovane Monson aveva vivacemente protestato per l’arresto, negando il possesso della droga (ma allora, com’era finita nelle sue tasche?). Vista la tragica fine oggi accertata, si è portati a ritenere che Alexander avesse proseguito nelle sue proteste anche all’interno della stazione di polizia, scatenato così la brutale reazione dei quattro poliziotti. L’amico, appena liberato, mentre lasciava il posto di polizia, riferiva di averlo visto in preda a convulsioni sul pavimento della cella.
Quando la madre, avuta notizia dell’arresto, correva alla stazione di polizia, gli veniva detto che il figlio era stato trasferito all’ospedale perché in gravi condizioni causa “l’ingestione di una grande quantità di droga”. In ospedale la donna trovava il figlio semi incosciente, incatenato al letto e con gravi difficoltà respiratorie. Il decesso avveniva nel giorno successivo ed è quasi surreale che gli agenti insistessero sull’ingestione di droga quando la marijuana si fuma e non s’ingerisce. Queste contradditorie ricostruzioni dei fatti e l’atteggiamento scarsamente cooperativo della polizia inducevano i genitori del ragazzo, Hilary e Nicholas, a impegnarsi in una strenua e lunga battaglia per conoscere quella verità che è oggi scaturita dalla sentenza del giudice Odenyo.
Alexander Monson aveva lasciato le verdi colline di Lincolnshire nel 2008 per raggiungere la madre che è nata e cresciuta in Kenya. Una scelta che gli è costata la vita quando era nel pieno del vigore giovanile. “Il Kenya è noto nel mondo per l’alto livello di corruzione – ha detto Lord Monson nell’apprendere la sentenza – questa decisione della corte fa onore alla giustizia e al giudice Odenyo”. Monson ha anche confessato che, fino a oggi, aveva nutrito ben poche speranze su una simile conclusione del caso “specialmente – ha riferito alla stampa – dopo avere saputo che nel 2016 l’avvocato Willy Kimani, noto a livello internazionale per la sua attività in difesa dei diritti umani, era stato assassinato mentre era in custodia presso la polizia di Nairobi”.
Solo tre dei quattro accusati erano presenti in corte nel giorno della sentenza. Il quarto, John Pamba ha fatto perdere le proprie tracce. Il giudice ha ordinato l’arresto dei tre presenti e spiccato un ordine di cattura per il quarto. Tutti avevano comunque respinto le accuse proclamandosi innocenti. Il 19 luglio si terrà il primo dibattimento in aula, dove gli accusati tenteranno di ottenere la libertà su cauzione. L’inchiesta potrebbe tuttavia allargarsi ad altri funzionari di grado elevato che sono sospettati di aver coperto l’accaduto, minacciando anche i testimoni che vi avevano assistito.
La brutalità, l’arroganza e lo strapotere della polizia in Kenya, sono anche il frutto di un sistema perverso e corrotto che garantisce alla stessa un alto livello d’impunità. “Quando un cittadino – aveva detto un funzionario dell’ONU, all’indomani dell’uccisione dell’avvocato Kimani – incontrando un poliziotto non si sente protetto, ma prova paura, non si può parlare né di legalità né tantomeno di democrazia ed è ciò che sta oggi accadendo in questo Paese”.
Franco Nofori
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