Franco Nofori
Galliate (NO), 1° luglio 2018
Definito da alcune testate italiane un novello Enrico Mattei per la tenace volontà di produrre energia pulita, Orlandi, nel 2012 approda in Kenya dove, con un investimento globale di un milione e duecentomila euro, dà vita a un progetto finalizzato alla coltura della jatropha, una pianta non commestibile e quindi del tutto inutile per l’alimentazione umana, ma più che eccellente per estrarne un olio combustibile che possa sostituirsi al petrolio.
La scelta è senz’altro azzeccata e si allinea alle direttive della FAO che, nel suo troppo spesso frustrato progetto di sfamare il pianeta, non vuole sentir parlare dell’utilizzo di vegetali commestibili per trasformarli in carburante. “No food for fuel”, recita infatti il suo slogan ed è esattamente questo che Orlandi intende fare: produrre energia pulita utilizzando biocarburanti. La jatropha è una pianta molto resistente che cresce rigogliosa nonostante il caldo e i lunghi periodi di siccità. Come la gramigna anche questa pianta riesce a sopravvivere con pochi litri d’acqua per un intero ettaro.
La coltura della jatropha in Africa non è una novità per Orlandi. Ha iniziato a coltivarla nel 2006 in Senegal per poi allargarsi in Guinea e in Etiopia. Quando prende pienamente vita anche il progetto keniano, i terreni acquisiti in Africa dall’Orlandi srl. sfiorano i 900 mila ettari e non si tratta esclusivamente di terreni destinati alla produzione di biocarburante. Nella sua espansione l’azienda di Orlandi, presta anche attenzione alle necessità della popolazione locale. Ai filari della jatropha si alternano quelli di casuarina (pianta di rapida crescita utilizzata nell’edilizia), mais, patate e altre colture necessarie all’alimentazione base degli indigeni; si scavano pozzi per l’acqua, si realizzano scuole, ospedali, abitazioni e – soprattutto – si creano posti di lavoro che, quando il processo di spremitura, oggi realizzato in Italia, potrà essere delocalizzato in Africa, fornirà occupazione a oltre 150 mila addetti.
Insomma, una scelta davvero ambiziosa e certamente salutare per un continente afflitto da povertà, disoccupazione e fame, però, nonostante questo e dopo aver riscosso confortanti successi in altri paesi africani, quando approda in Kenya il progetto fallisce miseramente. Perché?
Luciano Orlandi non ha esitazioni:
“Mi sono messo nelle mani sbagliate e il mio progetto è stato sconfitto dalla corruzione imperante in Kenya. Le mani sbagliate sono quelle di Ivan Del Prete, un connazionale residente a Malindi cui, mal consigliato, pur se in buona fede da altri espatriati locali, mi ero appoggiato per la realizzazione del progetto, affidandogliene la totale gestione”.
Sa che Ivan Del Prete è l’attuale console onorario di Malindi?
“Sì, lo so, ma non lo era quando io l’ho incontrato e devo dire che questa nomina mi ha sorpreso non poco. Comunque, console o no, le cose non cambiano: lui, approfittando dell’autonomia che gli avevo conferito, mi ha derubato di circa 250 mila euro”.
Un’accusa pesante, questa. E sarebbe la ragione per cui il progetto è fallito?
“No, questo non posso dirlo, anche se lui non mi ha tenuto correttamente informato di quanto accadeva, trascinando la cosa per le lunghe – Orlandi qui si concede un sorrisetto ironico –. Sarà forse perché, al cambio di allora, percepiva duemila euro di stipendio mensile…”
Ma allora, cos’è che ha bloccato l’iniziativa? “
“Avevamo affittato dal governo keniano, circa cinquanta mila ettari di terreno nella foresta di Dadacha a ottanta chilometri nord di Malindi. Alcune NGO (ONG in italiano che sta per ‘Organizzazione non Governativa’, ndr) si sono messe a strillare, accusandoci di distruggere la foresta e hanno fatto un tale baccano da coinvolgere i media locali, finché è intervenuta la NEMA (ente preposto alla salvaguardia dell’ambiente, ndr) che ha bloccato ogni cosa, benché avessimo preventivamente ottenuto tutte le necessarie autorizzazioni. E’ stata una decisione scriteriata che non ha tenuto conto dello stato di povertà della popolazione locale. Solo in Kenya il progetto prevedeva di occupare oltre quattromila persone e avevamo cominciato a piantare la jathropha, alternando i filari ad altre colture per l’alimentazione degli abitanti dei villaggi vicini. Una quarantina di persone stava già lavorando alle nostre dipendenze. Avevamo trasferito in Kenya trattori, scavatrici, altri macchinari pesanti e varie attrezzature… Tempo e denaro sprecati per nulla”.
Le parole di Orlandi sono venate di risentimento e di amarezza, del resto più che giustificati, viste le brusche modalità in cui il progetto è abortito. Non vediamo però sostanziali responsabilità di Del Prete in questa sventurata conclusione. Perché è così arrabbiato con lui, quando ha appena ammesso di non considerarlo responsabile?
“Quando abbiamo tirato i remi in barca, lui, nella sua qualità di direttore locale, si è assunto la responsabilità di recuperare quanto possibile, cercando di vendere i macchinari e le attrezzature che avevamo portato in Kenya, ma tradendo il rapporto di fiducia che la sua posizione richiedeva, ha speculato vergognosamente sul nostro fallimento. Per mesi ha noleggiato a terzi i nostri macchinari; altri li ha venduti intascandone i profitti senza registrarli a credito dell’azienda che gli pagava lo stipendio. Si è anche impossessato del saldo di cassa, insomma: ci ha sottratto una somma complessiva di circa 250 mila euro. Secondo lei ho sufficienti ragioni per definirmi derubato?”
Quali spiegazioni ha fornito Del Prete a fronte delle accuse che gli indirizza?
“Spiegazioni? Non ha fornito nessuna spiegazione! Del resto che spiegazioni potrebbe fornire chi ha commesso un furto? Del Prete tace. Non ha riposto a nessuna delle nostre domande, ha disertato la convocazione del CDA dell’azienda. Si gode semplicemente i nostri soldi in tranquillo silenzio”.
Ma lei avrà pur preso qualche iniziativa, si sarà rivolto alle autorità, a un legale… anche in Kenya, un furto – se di questo si tratta – è un reato penale perseguito dalla legge.
“Ho presentato una denuncia alla polizia di Malindi e attendevo che la faccenda approdasse in corte ma nulla è avvenuto. L’intero fascicolo forse è smarrito o forse bloccato in qualche oscuro meandro del sistema in cui prospera la corruzione. Non lo so. Il mio avvocato locale, quando lo interpello, non fa altro che chiedermi altri soldi, ma ho perso le speranze di ottenere giustizia. Questa avventura mi è già costata troppo, meglio fermarmi qui pur se con grande amarezza”.
Così ha rinunciato a far valere le sue ragioni?
“Sì, ho rinunciato, ma quando ho saputo che Ivan Del Prete stava per essere nominato nuovo Console Onorario di Malindi, mi sono davvero indignato. Com’era possibile che una tale persona fosse stata scelta a rappresentare il mio Paese?”
E cos’ha fatto oltre a indignarsi?
“Ho protestato sia con l’ambasciata Italiana, sia con il Comites, il Comitato Italiani all’Estero che è un suo organo consultivo”.
E cosa ne ha ottenuto?
“Ho poi saputo che il Comites, lette le mie rimostranze, aveva chiesto all’ambasciata di sospendere la nomina di Del Prete fino all’avvenuta verifica delle accuse che io gli muovevo, ma poiché avevano già ottenuto l’approvazione dal nostro ministero degli Esteri e mancava solo la ratifica da parte delle autorità keniane per farla diventare operativa non hanno tenuto conto di questo consiglio. La cosa che più mi ha sconcertato è che mi hanno inviato una mail in cui dicevano di non potermi offrire alcuna assistenza perché io, pur essendo italiano, non ero iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, ndr). Siamo davvero nel surreale!”
Questo è quanto ha riferito il signor Luciano Orlandi nell’intervista che ha rilasciato ad Africa ExPress. Ovviamente abbiamo interpellato in proposito il console onorario Ivan Del Prete, offrendogli l’opportunità di fornire la sua versione dei fatti. Se e quando lo farà, saremo lieti di dare spazio anche alla sua replica.
Franco Nofori
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