Dal Nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 2 giugno 2018
Il governo del Kenya ha deciso di usare il pugno di ferro, contro gli espatriati che svolgono attività nel Paese senza un regolare permesso di lavoro e senza adempiere agli obblighi normativi e fiscali previsti dalla legge. La decisione appare più che motivata giacché gli stranieri che lavorano legittimamente in Kenya – e sono registrati come tali presso l’autorità dell’immigrazione – sono solo trentaquattromila, mentre, stando a quanto risulta al direttore dell’Immigrazione, Fred Mathiang’i, i lavoratori illegali ammonterebbero a oltre centomila e forse si tratta di un numero sottostimato.
Questo stato di cose è del resto ben noto al grande pubblico e risulta possibile anche grazie alla connivenza di funzionari corrotti, staccati presso i vari uffici periferici del dipartimento in questione. Quasi tutti i settori imprenditoriali sembrano essere in varia misura affetti da questa elusione delle norme di legge, tra i molti primeggiano le attività turistico-alberghiere: il personale dei tour operator, gli animatori, gli addetti alle attività escursionistiche, gli esercizi per la ristorazione, i fornitori di alloggio e bed & breakfast in strutture private e prive di adeguate licenze per operare.
E’ fuor di dubbio che queste attività illegali, che si sottraggono al pagamento degli oneri previsti e possono quindi offrire prestazioni a basso costo, creano grave nocumento alle imprese che agiscono nel pieno rispetto della legge, ottengono le previste autorizzazioni e pagano le tasse sui proventi di fine esercizio, ma anche in queste aree della trasgressione emergono le immancabili incoerenze della classe dirigente del paese.
Basterebbe, infatti, un periodico monitoraggio dei vari social network in cui si offrono alloggi vacanze in Kenya, per scoprire centinaia di strutture private che si dedicano a tale attività, mentre chi le gestisce, non dispone d’altro che di un semplice visto turistico, senza licenze, senza rendiconto degli incassi, senza sottostare alle previste norme di sicurezza. Perché i funzionari dell’immigrazione, quelli delle autorità distrettuali e quelli della protezione ambientale (NEMA), non utilizzano questo semplice strumento per combattere il lavoro illegale e individuare chi lo pratica?
A questa domanda e nonostante le numerose sollecitazioni promosse da chi subisce la concorrenza sleale degli irregolari, il governo keniano non ha mai dato risposta. Ciò che ha invece fatto è stato di promulgare norme draconiane che andranno soprattutto ad affliggere proprio chi ha da tempo rispettato la legge, mettendosi in regola e ottenendo il previsto permesso di lavoro per operare in serenità e senza ricorrere ai sotterfugi di rito in un Paese in cui sono spesso vessati coloro che adempiono i propri doveri, più di quelli che sono usi a trasgredirli.
Lo scorso venerdì, Matiang’i ha annunciato che tutti i detentori di un permesso di lavoro (quindi quelli che sono già in regola) dovranno, entro sessanta giorni, recarsi presso la sede centrale dell’immigration a Nairobi, per presentare i documenti che attestano il loro diritto a lavorare in Kenya. Se questo diritto sarà accertato, verrà loro rilasciato un permesso elettronico da esibire alle autorità che ne faranno richiesta. Ciò significa che chi opera in zone lontane dalla capitale, dovrà recarsi a Nairobi due volte: una per fornire la prova del proprio diritto e l’altra per ritirare il documento elettronico.
Trascorsi questi sessanta giorni in cui chi è in regola sarà confermato nel proprio diritto e chi non lo è potrà fare domanda per ottenerlo, si scatenerà, in tutto il territorio nazionale, la caccia all’illegale che, afferma Matiang’i, sarà arrestato, processato e quindi espulso dal paese senza appello. Annuncio, questo, che suona ingenuo e patetico. Si pensa davveo che i clandestini si presenteranno spontaneamente alla forca per denunciare il proprio status illegale? Davvero difficile crederlo, ma a quanto pare non così difficile per i solerti funzionari dell’immigration.
Quindi coloro che dovranno assoggettarsi al doppio pellegrinaggio verso il santuario dell’Immigration, saranno solo i poveretti che hanno adempiuto i propri doveri. Perché punirli imponendo loro perdite di tempo e intuibili costi di trasferta quando esistono uffici periferici che potrebbero farsi carico di acquisire la documentazione richiesta e inviarla alla sede centrale affinché la verifichi? La risposta è intuibile: perché non ci si fida dell’incorruttibilità dei funzionari decentrati presso gli uffici territoriali. Ma se così stanno le cose, chi si farà carico, trascorso l’ultimatum dei sessanta giorni, di dare la caccia agli illegali sul territorio nazionale? Non saranno gli stessi funzionari sfiduciati? E allora tutto si risolverà nell’eterna pantomina in cui a fronte delle sempre più roboanti dichiarazioni, l’andazzo continuerà come al solito con buona pace dei trasgressori e di chi dovrebbe smascherarli.
Del resto, i covi della corruzione non son solo gli uffici decentrati, anzi questi impongono, tutto sommato, “tariffe” più ragionevoli di quelle praticate nel palazzo. Lo sanno bene coloro che, pur in possesso dei requisiti previsti dalla nuova costituzione per ottenere la cittadinanza, si sono sentiti richiedere, proprio dagli alti funzionari del palazzo, somme di “favore” che raggiungono anche i diecimila euro, pur se la tariffa ufficiale, che varia secondo le caratteristiche del richiedente, può essere inferiore ai duecentosessanta euro. In sostanza è proprio l’imperante corruzione del sistema che finisce sempre per castigare la probità e favorire la trasgressione.
Franco Nofori
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