Franco Nofori
Mombasa, 1° maggio 2018
Il fatto, riportato dalla TukoNews, è avvenuto nel pomeriggio di giovedì scorso a Mwangaza nella contea di Tana River. Una donna decide di far visita alla cognata che non vede da tempo. Quando arriva presso la sua abitazione trova la porta d’ingresso socchiusa e quindi entra, ma la casa appare deserta. Sorpresa, la donna, perlustra le altre stanze pensando che la cognata sia da qualche parte nell’abitazione, ma quando accede alla camera da letto, la scena che le si presenta è così sconvolgente da farle perdere i sensi: sul letto sfatto l’attempato cognato, funzionario presso un pubblico ufficio della contea, sta avendo un rapporto sessuale con la propria figlia sedicenne.
I due, sopresi nell’atto incestuoso, si rivestono rapidamente e sono i primi a prestare soccorso alla donna svenuta, la quale, appena ripresa conoscenza, profondamente turbata dalla scena cui ha appena assistito, prende a urlare tutto il suo sconcerto facendo accorrere numerosi vicini. Al padre e alla figlia, colti in flagranza, non resta che confessare, davanti all’audience improvvista, la loro relazione carnale, affermando che la stessa dura da lungo tempo e che la madre della ragazza – in quel momento in visita presso gli anziani genitori – ne è a conoscenza e non si oppone.
Incredula e sgomenta, la donna chiama al cellulare la cognata per metterla al corrente dell’accaduto, ma la reazione di questa è tale da lasciarla nuovamente sbigottita: “Perché ficchi il naso in faccende che non ti riguardano? – è l’irosa risposta della cognata – Lo fai perché vuoi distruggere il mio matrimonio?”. Che in una certa parte della cultura africana, i tradimenti maschili siano pazientemente tollerati dalle consorti, è un fatto ormai acclarato e non certo limitato a queste latitudini, ma che una donna preferisca cedere la propria figlia agli insani ardori del marito, pur di non perderlo, è davvero ripugnante.
Nei commenti del vicinato, emerge però una spiegazione, circa il riprovevole comportamento della moglie tradita che, se non vale a giustificarlo, ne fa quantomeno comprendere l’origine: pare che il pubblico funzionario, oltre che incestuoso, fosse anche violento e percuotesse abitualmente la compagna per piegarla alla propria volontà. L’uomo tuttavia dichiara ai presenti di non ritenersi colpevole in quanto la figlia è sempre stata consenziente ai loro rapporti contro natura e – nello sbalordimento collettivo – la ragazza conferma disinvoltamente l’affermazione paterna, aggiungendo che, a volte, era stata lei stessa a sollecitare i loro incontri.
La notizia diffusa dalla TukoNews, non fornisce l’identità delle parti coinvolte nel deprecabile episodio, né se nei confronti dello stesso vi siano stati provvedimenti di polizia. Tutto ciò che – oltre al fatto in se – pare sia stato accertato, è che la sedicenne era fidanzata con un coetaneo, il quale, appena venuto a conoscenza dell’accaduto, ha espresso il proprio disgusto e ha immediatamente troncato la relazione dichiarando che, per quanto lo riguardava, la sua ex, visto che così le piaceva, poteva tranquillamente continuare il rapporto incestuoso con il padre.
In forte contrasto con il suo ostentato perbenismo, i rapporti incestuosi, in Africa, sono purtroppo una metastasi sotterranea molto diffusa che solo raramente vengono alla luce. Secondo la teoria di molti antropologhi, largamente condivisa dagli osservatori della realtà africana, l’incesto è più spesso il frutto della sovranità patriarcale che tende a esprimere nei confronti delle proprie progenie – soprattutto femminili – un senso che è più di possesso prima di essere affettivo, mentre l’acquiescenza verso questi intollerabili abusi, deriva quasi sempre, dal soddisfacimento dei bisogni essenziali. E’ l’uomo che consente di avere il cibo in tavola, lui che provvede alle rette scolastiche, all’assistenza medica e a fornire il tetto sotto cui vivere.
Recentemente, il Dipartimento per gli Affari Femminili del Governo del Botswana, ha rilevato una preoccupante escalation dei casi d’incesto che si accompagnano quasi sempre a un diffuso sentimento di accettazione sociale. Questo avviene malgrado che il reato d’incesto sia penalmente perseguibile e sia anche condannato dalla maggior parte delle leggi tribali. Le pene inflitte – posto che questi eventi vengano denunciati – sono però minime, quasi sempre inferiori ai cinque anni di carcere o di libertà condizionata, mentre il membro della famiglia che ha avuto il coraggio di denunciare il fatto, si esporrà alla severa riprovazione dell’intera comunità cui appartiene. Inoltre, la legge non considera incestuosi, i rapporti con zii, patrigni, o membri familiari acquisiti e tipici delle famiglie allargate africane.
Analogo riscontro è quello effettuato in Sudafrica dal WLSA (Women in Law of Southern Africa), le cui risultanze indicano una moltiplicazioni dei casi d’incesto nei confronti dei quali la polizia ha grandi difficoltà a intervenire, perché sia le vittime che i loro familiari più stretti sono spesso indotti al silenzio dal responsabile, che ottiene la loro omertà contro pagamento di una misera somma. Secondo accertamenti eseguiti dalla polizia, basterebbe infatti l’equivalente di settanta euro per garantirsi l’impunità.
Quello che però stupisce, nell’episodio di Mwangaza, è che la contea del Tana River, è abitata dalla vasta etnia mijikenda, fortemente superstiziosa e strettamente legata alle proprie antiche credenze tribali. Secondo queste credenze, l’incesto è considerato un atto riprovevole e disgustoso, proibito dalle leggi naturali e divine. Infrangere questo divieto – sempre secondo norme tribali non scritte – significa attirare su se stessi una terribile maledizione divina. Evidentemente il pubblico funzionario di Mwangaza era sufficientemente emancipato per non curarsi di primitive credenze tribali, ma non abbastanza probo da poter controllare i propri animaleschi istinti verso lo stesso frutto del suo sangue. Quel frutto cui gli era demandato di aver cura, educare e proteggere.
Franco Nofori
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