Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 26 aprile 2018
I tunisini continuano a lasciare il loro Paese: nel 2017 il numero di chi fugge si è quintuplicato rispetto al 2016. Un esodo inarrestabile. Secondo la ONG tunisina, Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux, oltre novemila giovani avrebbero cercato di lasciare la Tunisia. Il sessantasei per cento è riuscito nell’intento e ha raggiunto le nostre coste, mentre i restanti sono stati bloccati dalle autorità di Tunisi.
Il Viminale ha confermato l’arrivo di seimila tunisini durante l’anno passato. Il ministro degli Interni, Marco Minniti, ha precisato durante il question time del 20 dicembre 2017 che i migranti provenienti dalla Tunisia rappresentano il cinque per cento degli arrivi. Grazie agli accordi firmati con il governo tunisino nel febbraio 2017, le procedure per il rimpatrio sono state semplificate cosicchè Roma ha potuto rispedire ben 2.193 migranti nella ex colonia francese. Poco più di un anno fa il responsabile degli Esteri Angelino Alfano e il suo omologo tunisino, Khemaies Jhinaoui, hanno firmato una dichiarazione congiunta, volta al consolidamento del partenariato tra i due Paesi. Gli interventi del nostro governo sono mirati ad estirpare le cause profonde della migrazione irregolare; prevede anche una efficacie cooperazione per quanto concerne il controllo delle frontiere, in particolare quelle marittime.
Con la caduta del regime corrotto di Zine El-Abidine Ben Ali nel 2011, il Paese è diventato più democratico, ha conquistato la libertà d’espressione e altri diritti, ma il malessere finanziario e sociale è rimasto tale e quale; la sua economia non è ancora in grado di ristabilire tassi di crescita adeguati per attenuare le tensioni sociali. La disoccupazione giovanile ha raggiunto ormai il trenta per cento, i salari continuano ad essere bassi, malgrado l’elevato costo della vita.
Tra i molti giovani arrivati in Italia nel 2017, settecento di loro provengono da Redeyef, nella regione di Gasfa. La città si trova in uno dei più importanti bacini minerari di fosfato al mondo. Ma l’industria estrattiva della zona non riesce a creare nuovi posti di lavore o occupazioni alternative e ciò alimenta il disagio sociale in tutta l’area. E qui tutti giovani vorrebbero partire, scappare. In arabo si dice haraga: bruciare. Prendere la barca, significa “bruciare le frontiere”, “bruciare i documenti in mare” per non lasciare tracce di sè, per complicare un eventuale respingimento o rimpatrio. A Redeyef la gioventù parla solo di questo: haraga, “bruciare i limiti”.
A Bir Ali Ben Khalifa, una città nel governatorato di Sfax, sulla costa orientale, le cose non vanno molto meglio.
In questa regione gran parte della popolazione vive della coltivazione di ulivi. Un lavoro duro e faticoso e i più riescono a racimolare a malapena cento euro al mese. A Bir Ali Ben Khalifa è stato inaugurato due anni fa un nuovo ospedale, una struttura moderna, equipaggiato di tutte le attrezzature all’avanguardia, ma a tutt’oggi è ancora chiuso al pubblico. La popolazione mormora che i fondi per lanciare il nosocomio siano stati utilizzati per altro. Qui, come altrove, manca il lavoro. Le donne trovano a volte impiego nelle fabbriche tessili presenti sul territorio, mentre gli uomini, se non riescono o non vogliono imbarcarsi, per arrotondare, si dedicano al contrabbando.
In molti, però, non hanno una visione chiara di ciò che li attende in Europa, in Francia e in Italia, le mete più ambite. Non si rendono conto che la vita nel vecchio continente è cara, che anche da noi la disoccupazione è piuttosto elevata. A questi giovani non importa, vogliono andarsene a tutti costi, perché nel loro Paese, al momento attuale, non hanno futuro.
E Beji Caid Essebsi, il presidente, e il suo governo che cosa fanno per arrestare questo esodo? Sapranno rispondere alle esigenze dei giovani, creando occupazione, sostenendo l’imprenditoria? Saranno in grado di ridare sogni e speranze alla popolazione? Oppure si cercherà di fermare l’immigrazione solamente con la forza? Lo scorso ottobre una nave della marina militare tunisina ha speronato una barca di legno con a bordo una settantina di persone. Parecchi i morti e i dispersi. Le autorità parlano di un incidente, i sopravvissuti, per lo più provenienti dalla zona di Sfax, sono convinti del contrario. Le indagini per far luce su questa tragedia sono ancora in corso.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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