Dal Nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 23 aprile 2018
Era fatale che prima o poi dovesse accadere. Visitare il centro commerciale di Amalgam – una borgata meridionale di Johannesburg – è come passeggiare in un mercato di Shangai. Vi sono più di 500 negozi gestiti dagli intraprendenti figli del dragone asiatico e non a caso, al complesso in questione è stato dato il nome di “China Mall”. In Sudafrica vivono oltre 500 mila cinesi che rappresentano la più corposa comunità dell’intero continente africano. Ma le cose stanno rapidamente cambiando e il paradiso cinese in Sudafrica, va miseramente deteriorandosi, spingendo gradualmente gli invasori orientali ad andarsene.
Il Capodanno cinese, che segue un complesso calcolo riferito alle fasi lunari, quest’anno si è tenuto verso la metà di febbraio. Si tratta di un evento cui i cinesi danno molto risalto e che di norma dà un poderoso impulso alle celebrazioni, agli acquisti e ai regali, un po’ come avviene per noi durante le festività natalizie. Quest’anno, però, i negozi di “China Mall” sono rimasti desolatamente vuoti o quasi. I sudafricani li hanno sdegnosamente disertati. Dei cinesi non ne possono davvero più e per dimostrare la loro insofferenza, non esitano a passare alle vie di fatto. Del resto la stessa intolleranza sta nascendo un po’ ovunque nel continente dove la micro-imprenditoria cinese entra in concorrenza con quella locale.
Gli attacchi xenofobi contro i cinesi si sono intensificati fino a rendere ad alto rischio il mantenimento della loro presenza in Sudafrica. Non tutti però, malgrado il forte desiderio di andarsene, lo possono fare. Per dar vita alle loro attività hanno contratto debiti ai quali la legge impone di far fronte, ma anche quando riusciranno a farlo, si tratterà di dover registrare un doloroso fallimento. I cinesi che espatriano sotto la spinta del piano di espansione del proprio governo, provengono in gran prevalenza dalle zone rurali più povere e il ritorno in patria significa gettarli in un’indigenza peggiore di quella che avevano lasciato, quando abbandonate le loro attività, si erano lasciati attrarre dall’effimero sogno dell’Eldorado africano.
Dal canto suo, Pechino, che sembra essere cieca di fronte al fenomeno, continua a investire miliardi di euro in Sudafrica, per infrastrutture, progetti agricoli ed estrazioni minerarie, ma gli africani, ormai hanno carpito ai cinesi le loro metodologie operative. Molti di loro sono in grado di sviluppare rapporti diretti con la Cina ed entrare quindi in concorrenza con gli stessi commercianti cinesi che, peraltro, stanno facendo i bagagli a migliaia per tornarsene a casa o migrare nei paesi africani confinanti, dove, molto probabilmente rivivranno, nel tempo, la stessa odissea.
“Sono arrivato in Sudafrica nel 1955 – ha confidato al corrispondente de La Stampa, il negoziante Qian, originario della provincia di Zhejiang – gli africani non avevano neppure le scarpe. Non c’erano negozi che fossero alla loro portata e siamo stati noi a vendergli tutto ciò che occorreva loro a basso costo”. Oggi, però, gli africani guardano ai prodotti cinesi con ostentato disprezzo. Le loro merci le chiamano “Fong-Kong”, cioè schifezze d’infima qualità e sono sempre più irritati che, durante la conduzione del deposto presidente Jacob Zuma, ai cinesi siano stati riconosciuti gli stessi incentivi governativi fino a quel momento riservati ai piccoli imprenditori africani.
Alle problematiche ambientali, che vedono al loro apice l’ostilità e l’insofferenza che i sudafricani mostrano verso di loro, si aggiungono anche quelle culturali. Sono infatti pochissimi i cinesi che riescono ad esprimersi in un inglese comprensibile e data la prevalente origine agricola, anche le loro capacità imprenditoriali sono drammaticamente scarse. Un altro aspetto che irrita fortemente la popolazione locale è dato dall’abitudine cinese – riscontrabile ovunque si creino loro comunità – a isolarsi completamente dagli altri, costituendosi come caste inaccessibili in cui viene attuata una totale autarchia che non è certo l’atteggiamento più adatto per portare benefici alla micro-imprenditoria africana.
Eppure, all’inizio di questo millennio, l’arrivo degli investimenti cinesi, pareva aver indiscutibilmente promosso un poderoso balzo verso il progresso del Sudafrica. Furono ben 18 gli enormi centri commerciali realizzati dai cinesi nelle città di Durban, Johannesburg e Città del Capo, senza contare la miriade di negozietti sparsi in tutto il territorio nazionale. Ora, questo complesso apparto che – come accaduto ovunque in Africa, all’arrivo del partner cinese, ha indubbiamente arricchito la classe dirigente – sta miseramente implodendo. Le strutture da loro create sono fatiscenti e deserte e quel poco che resta è continuamente soggetto a furti e atti vandalici, senza contare le aggressioni cui i cinesi si trovano soggetti.
Insomma, tutto questo è il segnale che la presenza cinese in Africa ha iniziato la sua danza del cigno? Forse no o, almeno, non in senso assoluto perché i grandi progetti infrastrutturali cui la Cina ha dato il via, non sono equiparabili alla piccola imprenditoria commerciale cui si dedicano i suoi più poveri cittadini, ma è certo un significativo segnale che la conquista dell’Africa non è poi quell’amena passeggiata che forse, il colosso cinese si era prefigurato.
Franco Nofori
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