Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 2 aprile 2018
La Corte di Nouadhibou, nel nord-ovest della Mauritania, ha pronunciato sentenze storiche qualche giorno fa: due persone sono state condannate per schiavismo. Hamoudi Ould Saleck dovrà scontare vent’anni di prigione. A suo padre, deceduto poco prima della fine del processo, è stata inflitta la stessa pena post mortem. Entrambi avevano ridotto in schiavitù un’intera famiglia, che comprende anche due bambini.
Mentre una donna, Revea Mint Mohamed, dovrà passare i prossimi anni in galera per aver ridotto in schiavitù ben tre persone. Tra loro anche una giovane di ventinove anni, al servizio di Revea da quando aveva pochi anni. Le presone processate dai giudici sono state denunciate alle autorità da ex schiavi.
Nel recente passato pochissimi mauritani sono stati condannati per questo grave reato e le pene inflitte erano minori. E’ probabile che le queste severe condanne siano da ricollegarsi ad un appunto dell’Unione Africana, che ha chiesto alla Mauritania un inasprimento delle pene per questo tipo di reato.
La ex colonia francese è stato l’ultimo Paese ad aver abolito la schiavitù nel 1981, ma solo sulla carta. Una delle forme di schiavitù maggiormente praticata nel Paese è il matrimonio coatto, praticato sin dal XI secolo. Una tradizione talmente radicata nella cultura mauritana, che una prima legge emanata nel 2007, dietro forti pressioni della comunità internazionale, non ha per nulla intimorito gli schiavisti. Le punizioni per il reato commesso erano infatti troppo miti e, tra l’altro, non venivano quasi mai applicate e i reati non denunciati.
In seguito la schiavitù è stata abolita nuovamente il 12 agosto 2015 e la nuova legge considera ora la schiavitù come un reato contro l’umanità. Peccato che denunce e relativi processi siano ancora troppo pochi e non di rado sono i militanti antischiavisti a finire nelle luride galere (https://www.africa-express.info/2016/05/19/la-corte-suprema-della-mauritania-ordina-scarcerate-i-due-militanti-antischiavismo/).
Secondo The Global Slavery Index, in Mauritania almeno l’uno per cento della popolazione è a tutt’oggi ridotta in schiavitù. La società mauritana è ancora suddivisa in caste. I “mauri” bianchi o “beydens”, di origini arabe-berbere, costituiscono la classe dominante, mentre gli haratines e gli afro-mauritani appartengono alla “classe inferiore” e non hanno quasi mai potuto occupare posti di prestigio nella società. Difficilmente riescono ad avere accesso ai servizi essenziali dello Stato, come scuole o servizio sanitario nazionale e sono le prime vittime della schiavitù, anche se abolita. Le autorità continuano chiudere spesso entrambi gli occhi di fronte a queste pratiche e negano che lo schiavismo esista nei territori della Mauritania.
In un recente rapporto di Amnesty si legge come i difensori dei diritti umani che denunciano la schiavitù, vengono perseguitati e spesso sono vittime di campagne diffamatorie, aggressioni, minacce di morte e altro che non di rado provengono proprio dalle alte sfere governative o da gruppi religiosi.
Nella sua relazione la ONG con base a Londra, ha evidenziato che ancora oggi i diritti umani vengono poco rispettati in questo Paese del Sahel. Le manifestazioni sono praticamente vietate, disperse oppure represse con forza eccessiva. Moltissime organizzazioni, attive nella lotta contro la schiavitù e/o altre discriminazioni, non hanno mai ottenuto le autorizzazioni per registrarsi. In questo modo risultano fuorilegge e i membri corrono il rischio di essere arrestati da un momento all’altro.
Amnesty ha sottolineato e documentato che molti membri appartenenti ad associazioni per i diritti umani negli ultimi anni sito stati nessi in carcere o hanno subito processi irregolari, dopo confessioni estorte con violenza. (https://www.africa-express.info/2014/07/03/mauritania/)
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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