Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 21 marzo 2018
Grazie alla tecnologia Amnesty International smentisce i dati diffusi per anni da Eni e Shell sull’inquinamento da petrolio nel Delta del Niger. Le prove di gravissime negligenze delle due multinazionali sono state scoperte grazie al progetto “Decode Oil Spills”, piattaforma sviluppata dall’ong per condividere la ricerca sui diritti umani.
Nel progetto sono stati coinvolti attivisti e volontari: 3.545 ricercatori specializzati – chiamati “decoders” (decodificatori) – di 142 Paesi, soprattutto Francia, Olanda, Nigeria, Regno Unito e Svezia che hanno portato avanti un’investigazione innovativa sulle fuoriuscite di petrolio nell’ex colonia britannica. Le indagini mettono le compagnie petrolifere di fronte alle loro gravi responsabilità sul devastante inquinamento causato dalle “disattenzioni” e il deturpamento di un territorio immenso con incalcolabili danni alle popolazioni.
I decodificatori di dati hanno analizzato quasi 3 mila documenti e fotografie che riguardano le fuoriuscite di greggio nel periodo che va dal 2011 al 2017. I risultato dell’indagine sono quindi stati verificati da Accufacts, organismo indipendente di esperti petroliferi.
Amnesty accusa Shell ed Eni di dare informazioni fuorvianti riguardo al pesantissimo inquinamento causato. Per esempio Shell, dai suoi pozzi e oleodotti, nel 2011 ha segnalato 1.010 con fuoriuscite per oltre 110 mila barili che corrispondono a circa 17,5 milioni di litri. Eni invece ha dichiarato 820 fuoriuscite di petrolio con oltre 26 mila barili equivalenti a oltre 4 milioni di litri di greggio.
Secondo i due giganti dell’industria petrolifera la maggior parte delle perdite dalle pipeline sono causate da furti della popolazione. Le analisi dei dati dei decoder smentiscono e le fotografie mostrano fuoriuscite dovute alla corrosione degli impianti.
La maggioranza dei ricercatori ha identificato 89 fuoriuscite di greggio (46 di Shell e 43 di Eni) che dipendevano da problemi tecnici al gasdotto più che da ruberie della popolazione. Inoltre, attribuire le perdita di petrolio a un furto evitava alle compagnie di pagare i risargimenti alle decine di comunità colpite dal disastro ambientale.
“A peggiorare le cose è il fatto che Shell ed Eni paiono pubblicare informazioni non credibili sulle cause e le dimensioni delle fuoriuscite – ha dichiarato Mark Dummett, ricercatore su imprese e diritti umani di Amnesty International – La popolazione del Delta del Niger paga da troppo tempo il prezzo della sconsideratezza di Shell ed Eni. Grazie ai Decoders, siamo un passo più vicini all’obiettivo di chiamare le due aziende a rispondere del loro operato”.
Amnesty denuncia anche i ritardi nell’intervento in caso di perdita di greggio. Secondo i regolamenti vigenti in Nigeria le aziende devono recarsi sul sito dove è avvenuta la fuoriuscita entro 24 ore dalla segnalazione per un sopralluogo e quindi ripulire l’area prima che il petrolio contamini terra e falde acquifere. Secondo i documenti analizzati, se Eni ha rispettato quel termine temporale nel 76 per cento dei casi, Shell lo ha fatto solo nel 26 per cento. Non solo, la compagnia petrolifera anglo-olandese – con la riduzione delle fuoriuscite riportate – ha reagito più lentamente. È stato segnalato anche un incredibile ritardo: prima di visitare uno dei siti contaminati sono passati 252 giorni.
Poca cosa rispetto ad Eni che invece, prima di reagire, ha fatto registrare la reazione più lenta mai documentata: 430 giorni per una perdita nella provincia di Bayelsa, 700 km a sud della capitale Abuja. “C’è un motivo per cui ci sono quei regolamenti: più le aziende ci mettono a reagire alle fuoriuscite, più aumenta il rischio che il petrolio finisca per inquinare le fonti alimentari e idriche – ha commentato Dummett – Shell lo sa bene. Di sicuro, se il loro petrolio inquinasse terreni in Europa, non si comporterebbero in un modo così irresponsabile”.
Eni e Shell, come prevedibile, hanno rispedito le accuse al mittente. Secondo Shell le informazioni pubblicate da Amnesty sono false e non tengono conto della complessità del territorio e del contesto in cui l’azienda opera. Invece Eni ha respinto l’accusa di non prendere misure immediate per prevenire l’inquinamento.
In una lettera di risposta, l’azienda italiana afferma che il 13 per cento delle perdite di greggio degli anni recenti sono da attribuire a ragioni operative. Spiega che utilizza tecnologie innovative per il monitoraggio dell’integrità dell’oleodotto compresa l’osservazione aerea del territorio con i droni. I dati del 2017 rispetto al 2014 sulle fuoriuscite di petrolio registrano -74 per cento e un abbattimento del volume (-51 per cento).
Amnesty ha deciso di presentare i risultati dello studio al governo nigeriano e di chiedergli di rafforzare la normativa sull’operato delle aziende petrolifere. Suggerisce anche di fornire maggiori strumenti al Nosdra, l’agenzia governativa che si occupa delle fuoriuscite di petrolio, per fare in modo che le multinazionali petrolifere prendano tutte le possibili misure per prevenire o bonificare i danni causati.
Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
Twitter: @sand_pin
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