Nadia Nur
Roma, 4 marzo 2018
Ieri non è stato un giorno come gli altri a Asmara. Sono stati celebrati i funerali di Haji Musa Mohamed Nur, un martire contemporaneo, in un Paese di cui in Italia si parla molto poco, colpevolmente o per senso di colpa, l’Eritrea. Era stato arrestato alla fine di ottobre, dopo essersi opposto alla nazionalizzazione e alla laicizzazione della scuola Al Diia, di cui era preside onorario, e che da oltre cinquant’anni offriva educazione e sostegno ai ragazzi della comunità musulmana di Asmara.
Da allora, nonostante avesse più di novant’anni, era stato detenuto in isolamento, senza nessun capo d’accusa, com’è ormai la norma in un Paese dove lo stato di diritto è sospeso e la libertà delle persone annientata.
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La storia di Musa però rischia di cambiare la storia del Paese, o almeno questa è la speranza dei molti eritrei che hanno combattuto per l’indipendenza, degli esuli intenzionati a tornare nelle loro terra, dei giovani decisi a costruire un futuro senza dover emigrare.
La sua infatti è la storia di chi la rivoluzione l’ha fatta ogni giorno, offrendo mezzi di sussistenza ai meno abbienti, educando i giovani, assistendo i bisognosi, servendo il paese, mantenendo coesa la comunità, vivendo e lavorando tutta la vita ad Asmara, nonostante le occupazioni, le guerre, la dittatura. Per questo era rispettato e riconosciuto da tutti, giovani e anziani, come un ‘padre della patria’, un benefattore, un uomo retto, un esponente di spicco della comunità musulmana, un amico di quella cristiana.
Non è facile la vita di un giusto in un paese sbagliato. Si vedono morire i propri figli e fratelli, si resiste alle torture e alla prigionia, ma non si perde mai il senso di giustizia, e non si rinuncia mai ad affermare le proprie idee.
Quando Haji Musa col suo discorso ha difeso la sua scuola dall’ingerenza del governo, come Mosè (Musa in arabo), ha separato le acque e ha indicato la via. Il suo arresto ha scatenato la rivolta nelle strade di Asmara, repressa duramente, e molte proteste davanti alle ambasciate eritree all’estero, rinnovando la speranza, ormai assopita nel tempo, che il popolo eritreo avesse ritrovato lo spirito unitario necessario per cambiare l’ordine delle cose.
Studenti e insegnanti, genitori e figli, cristiani e musulmani, hanno manifestato insieme, perché la violazione della libertà riguarda tutti indistintamente. Non è difficile immaginare che dopo i fatti di Akhryia le condizioni di vita ad Asmara siano ulteriormente peggiorate, le libertà individuali ristrette, per timore che le sommosse si trasformino in qualcosa di più.
Chissà se Musa nella sua cella ha immaginato di aver scatenato tutto questo, di aver risvegliato le coscienze e infuso il suo coraggio a un popolo stremato dalla storia. Chissà se nelle sue preghiere silenziose (ogni manifestazione religiosa è vietata in carcere) ha chiesto di liberare il suo popolo dall’ennesima oppressione, di dargli la forza per autodeterminarsi. Di sicuro non ha immaginato che il corteo più numeroso sarebbe stato quello del suo funerale, nonostante l’imponente dispiegamento delle forze di sicurezza per impedire ai cittadini di raggiungere il quartiere di Akhryia.
Ma per i giusti non è facile neanche morire. Bisogna fare i conti con chi ha paura che un uomo morto possa essere più influente di uno vivo. Bisogna accettare che anche al proprio funerale non possano partecipare i propri figli, che si sparino pallottole per reprimere la folla e che siano arrestate persone, ree soltanto di voler rendere l’ultimo omaggio a chi ha sacrificato la vita per loro. Questo è l’ultimo atto di disprezzo di un governo nei confronti del proprio popolo.
Haji Musa lascia all’Eritrea un’eredità morale ingombrante e un’idea di cittadinanza esemplare. Per questo, comunque vadano le cose, nessun giorno sarà più come gli altri ad Asmara.
Ciao zio Musa, che la terra ti sia lieve e che la tua mano ci indichi sempre la via.
Nadia Nur
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