Pier Mario Puliti
26 febbraio 2018
Mi è appena giunta dall’Eritrea la notizia della morte di Haile Woldetensae, detto Duro.
Era stato ministro delle Finanze, dell’Industria e degli Esteri del governo eritreo fino al 2001. Dopo Mohamoud Sherifo, Ogboe Abraha e Seyoum Ogbamichael sembrerebbe essere il quarto del gruppo dei dissidenti, chiamato G15, ad essere morto in una cella delle prigioni del regime eritreo. Si vocifera che Duro sia scomparso il 25 gennaio scorso. Ma la nostra incertezza nasce dal fatto che i dissidenti eritrei, imprigionati nel settembre del 2001, oltre a non essere mai stati giudicati con regolare processo, non hanno mai potuto avere contatti con l’esterno; hanno vissuto nel più completo isolamento per tutti questi anni. Solo alcune notizie arrivano all’esterno tramite i carcerieri che li hanno incontrati durante la lunga prigionia.
Si dice che Haile sia morto dopo anni trascorsi in completa cecità, con molta probabilità provocata da una severa forma di diabete che lo aveva colpito quando ancora era ministro degli Esteri. Ed è proprio in quel periodo che riuscì a farsi conoscere in tutto il mondo per le sue straordinarie capacità politico-diplomatiche. Fu lui, infatti, a concludere, ad Algeri, dopo una lunga trattativa con i rappresentanti del governo etiopico l’accordo di pace dopo il sanguinoso conflitto (1998-2000) tra i due Paesi.
Un accordo non facile, con l’esercito etiopico ancora in territorio eritreo; ma con grande abilità l’ex ministro era riuscito a stabilire un rapporto paritario con la controparte nemica. Lo stesso anno Woldetensae aveva esposto a Francoforte il futuro dell’Eritrea che sognava: una nazione libera e aperta al mondo. Quel discorso è rimasto nella mente di molti eritrei, ed in particolare di tutti coloro che da sempre avevano desiderato una nazione migliore di quello che sarebbe poi stata.
Molti dissero allora che furono proprio la pace con l’Etiopia e la richiesta dell’applicazione della Costituzione a decretare la fine politica di Haile, perché il dittatore Isayas Afworky aveva già allora in mente di sbarazzarsi di ogni forma di democrazia interna per imporre il suo potere assoluto nel Paese.
Haile era molto amato nella sua regione d’origine, l’Acchelè-Guzai, quella che secondo i guerriglieri aveva pagato il prezzo più alto durante la guerra di liberazione ed ho sentito spesso discutere guerriglieri di quella provincia che ancora oggi lo considerano un vero e proprio eroe.
Ho incontrato l’ex ministro alcune volte in situazioni formali e informali. Conoscevo bene la moglie Roma e il figlio Mahari (credo che significhi “miele mio”), che spesso accompagnavo alla scuola italiana di Asmara. Ricordo che nel corso delle nostre conversazioni ascoltava con attenzione le parole e prima di iniziare a parlare, attendeva alcuni secondi, come se stesse riflettendo per misurare le risposte. Usava sempre poche frasi concise ma estremamente efficaci. Ricordo quando mi raccontò delle gravi ferite riportate in battaglia e del suo periodo di cura e convalescenza in Italia.
Voglio ricordare il mio amico Haile così, seduto al tavolo, insieme alla sua famiglia.
Io ho perso una persona che ammiravo e l’Eritrea ha perso un patriota, un uomo che amava profondamente la sua gente. Tutti abbiamo perso un pilastro della storia di quel Paese così martoriato.
Pier Mario Puliti
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