Franco Nofori
Mombasa, 12 febbraio 2018
Pochi giorni fa, una bimba giriama di soli otto anni, è stata ceduta dalla madre a un turista bianco perché, contro un ragionevole obolo, potesse soddisfare con lei le sue lerce pulsioni sessuali. Per la polizia “there is no case” (non c’è reato). La madre era consenziente; è stata regolarmente pagata e non ha sporto denuncia. Perché creare un inutile trambusto? L’uomo pare fosse tedesco, ma questo non significa nulla. Poteva essere francese, inglese, italiano o svizzero. Le modalità non cambiano cosi come non cambia il disgusto per un azione che trascina l’uomo evoluto al livello di una bestia. Anche questo è “Mal d’Africa”?
Spazi immensi, cieli trasparenti, contrasti aspri e stimolanti, esaltante senso di liberazione da convenzioni stantie, intimo collegamento alla purezza degli archetipi universali… Sì, l’Africa è per molti un traguardo che ristora lo spirito. Ci si affida alla sua quasi intatta natura primordiale; alla semplicità essenziale delle sue genti; al piacere di essersi liberati del superfluo per confluire nell’insondabile mistero cosmico, unico custode dell’intima conoscenza: la gnosi da sempre disperatamente cercata da tutte le scuole esoteriche.
Del resto, millenni di sempre più evoluto raziocinio, hanno via via creato tenaci sovrastrutture che, pur favorendo la sbalorditiva affermazione tecnologica dell’uomo, l’hanno anche inevitabilmente allontanato da quella scintilla primordiale, prezioso scrigno che racchiude il mistero della sua esistenza. Dove si può tentare di riscoprilo? Non certo nelle civiltà evolute che l’hanno ormai sepolto sotto i compatti strati di una logica che riconosce solo la stretta e provata relazione tra cause ed effetti. E così si approda all’Africa che, se pur anche lei soggetta alla stessa metamorfosi, è ancora molto lontana dai traguardi raggiunti altrove e quindi più vicina alle proprie origini.
Quasi mai, questa ricerca, è il frutto di una scelta deliberata, si compie obbedendo all’irresistibile impulso del nostro inconscio, quello che la psicanalisi definisce il “sé profondo”, che non si avverte in modo consapevole, ma che dirige tuttavia in forma assoluta i nostri sentimenti, le nostre emozioni e – quindi – le nostre scelte di vita. Se è questa la sensazione che ispira l’amore per l’Africa, un amore che attanaglia come una malattia, come una droga, allora lo si può legittimamente definire “Mal d’Africa”. Ma, ahimè, le cose non stanno sempre così e non è raro che le pulsioni che ispirano il “Mal d’Africa” siano spesso molto meno nobili di quanto vorrebbero apparire.
L’Africa, si è detto, fornisce un senso di libertà dalle convenzioni e dalle norme che esse contengono. Sono norme non imposte dalla natura, ma norme che l’uomo si è dato per potersi relazionare l’uno con l’altro nel reciproco rispetto di doveri e diritti. Trattandosi di un prodotto umano, in alcuni casi, queste norme, possono senz’altro mostrarsi fallaci, tuttavia, sono pur sempre quelle che regolano i rapporti umani. Il non rispettarle significa trasgredire le leggi, l’etica e la comune morale. Purtroppo è anche la possibilità di accedere a queste trasgressioni che può mascherarsi sotto l’improprio vessillo del “Mal d’Africa”.
Sono sempre di più quelli che approdano ai lidi africani, forti della certezza di poter dare sfogo, qui, a quelle pulsione che, altrove sarebbero condannate. Sapendo ben ricorrere alla corruzione, ci si può arricchire, ottenere enormi privilegi e opportunità. Si può soddisfare ogni perversione sessuale, anche la più disgustosa e turpe. Si può distruggere un rivale incolpevole e anche togliergli la vita, certi di non pagare pegno grazie a potenti protezioni prezzolate. Si può truffare, imbonire, depredare, sempre facendola franca e continuando ad ammantare il nostro vivere africano, come l’irresistibile esigenza del nostro “Mal d’Africa”.
Queste sedicenti vittime del “Mal d’Africa”, sono quelle che l’avvelenano e la uccidono, contagiandola con una “civiltà” di cui l’Africa – regolata dalle sue efficaci culture tribali – non aveva certamente bisogno. Forse non tutte queste culture erano condivisibili dal punto di vista occidentale, ma ai popoli africani andavano bene e le rispettavano. Noi abbiamo portato loro un dio biondo e con gli occhi azzurri, facendoglielo accettare come loro dio. Abbiamo imposto le nostre regole e il nostro sapere, rendendoli orfani delle loro certezze e lanciandoli così in un universo estraneo senza dotarli dei necessari strumenti culturali e conoscitivi. Gli abbiamo tolto quasi tutto, dandogli in cambio quasi nulla.
Questo concetto, lo esprime molto bene Robert Ruak nel suo libro “Something of Value” (Qualcosa che vale), la dove scrive che quando a un popolo si levano i suoi centenari riferimenti, occorre essere certi di poterlo sostituire con qualcos’altro di altrettanto valore. Noi non siamo stati capaci di farlo. In qualche ammirevole caso, alcuni di noi cercano di farlo ora, pur se tra mille difficoltà. Ma chi, innalzando la bandiera del “Mal d’Africa”, porta qui la sua cupidigia, le sue zozzerie e le sue presunzioni, facendo leva sulle abnormi condizioni createsi a seguito del contatto con il nostro mondo, è soltanto un opportunista spregevole e ipocrita cui nessun sentimento umano può essere attribuito.
Franco Nofori
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