EDITORIALE
Franco Nofori
Mombasa, 8 Febbraio 2018
Se il percorso dalla democrazia verso un regime autocratico è annunciato dalla tipicità di alcuni segnali, il Kenya, giorno dopo giorno, li sta inequivocabilmente mostrando tutti. Uno di questi, di gran lunga il più peculiare, è quello che riguarda la libertà d’informazione. E’ vero che anche alcuni sistemi democratici tentano a volte di manovrare i media, blandendoli o screditandoli nei modi in cui ciò appare possibile, ma in quei sistemi la pluralità dell’informazione e tale da poter vanificare ogni tentativo di manipolazione. Ecco perché nessun leader che voglia mantenere un giusto livello di consenso internazionale, mette in campo misure vessatorie nei confronti dei media.
Stando alla cronaca degli ultimi giorni, il governo del Kenya, ha invece deciso di farlo. Ha prima imposto inaccettabili divieti di trasmissione alle emittenti televisive e poi, vedendo disatteso il suo ordine, le ha oscurate ipso facto e non solo: ha mantenuto l’oscuramento per ben sei giorni malgrado un tempestivo ordine della Corte Suprema di riattivare i servizi. Infine, dopo un ulteriore petizione che lo accusava di oltraggio alla Corte, il governo ne ha riattivate solo due che, stando a quanto sostiene il Washington Post nel suo editoriale di martedì scorso, hanno potuto tornare in rete solo accettando alcune restrizioni sui loro reportage. Un oltraggio questo, non solo ai basilari principi del diritto d’informazione e dei diritti umani in generale, ma anche un impudente schiaffo al massimo organo di giustizia del Paese che vede le sue sentenze ridotte al ruolo di fastidiose interferenze nella gestione del potere politico.
Oltretutto, la decisione governativa, è in palese contrasto al disposto costituzionale che tutela i diritti di libera espressione. “L’atteggiamento del presidente Kenyatta – recita il Washingron Post nel suo editoriale – sta portando il Paese all’autocrazia che si era lasciato alle spalle quindici anni fa e invita all’ostracismo internazionale nei confronti della sua leadership”. Una mossa, quindi, del tutto dissennata soprattutto nei confronti di un Occidente che non ha ancora del tutto digerito la farsa del procedimento, contro Uhuru e Ruto, presso il tribunale internazionale ONU per i crimini contro l’umanità. Procedimento vanificato da misteriose scomparse di testi e sospette ritrattazioni dell’ultima ora. Ma ancora più sbalorditiva, per gli osservatori internazionali, è stata l’improvvisa alleanza dei due contendenti, Uhuru e Ruto – che oggi si definiscono “fratelli” – il cui aspro confronto, nel 2008, aveva causato oltre mille morti.
“Se il presidente Kenyatta avesse semplicemente ignorato il giuramento burla di Raila Odinga – si legge nell’editoriale – avrebbe dimostrato le qualità di un vero e saggio statista, lasciando l’intero biasimo al suo rivale, il cui gesto era già stato universalmente condannato. Invece ha scelto di adottare un puerile atteggiamento vendicativo, infrangendo le leggi del suo Paese e trasferendo su se stesso la dura riprovazione internazionale”. Questo, secondo l’autorevole giornale americano, porterà gravissimi danni al Kenya, visto che l’amministrazione Trump pare avere già all’esame azioni punitive contro il governo Kenyatta, che includerebbero sanzioni commerciali e la sospensione dei programmi di aiuto. Scelte che, se realmente adottate, potrebbero fatalmente essere presto seguite anche dall’Europa.
Fino ad oggi, però, Uhuru Kenyatta – che mostra di essere ben lontano dalla lungimirante saggezza paterna – vive questo orgasmo di potere, mostrandosi convinto che tutto gli sia concesso. Ha disposto il ritiro di quattordici passaporti appartenenti a membri dell’opposizione. Miguna Miguna, l’avvocato del NASA, rilasciato e poi nuovamente arrestato, è infine stato deportato in Canada, paese in cui Miguna gode della doppia cittadinanza e si e visto revocare dall’autorità per l’immigrazione la cittadinanza del Paese in cui è nato. Anche in questo caso si tratta di un atto illecito chiaramente contemplato dalla legge. Legge di cui Uhuru Kenyatta, mostra sempre più platealmente di non volersi curare.
Se il giuramento prestato da Raila Odinga il 30 gennaio scorso, è considerato dalla giustizia un atto di tradimento. Kenyatta avrebbe avuto due opzioni: arrestarlo e portarlo davanti ai giudici per farlo condannare, oppure, per evitare la violenta e presumibile reazione dei suoi sostenitori, ignorarlo e proseguire nella sempre più impellente governance del paese. Invece, come un barcaiolo che si trovi con un piede sul molo e uno sulla barca che sta allontanandosi, ha deciso di proseguire nella sua vendetta, ma senza il coraggio necessario per attuarla fino in fondo. Il maggior responsabile del giuramento all’Uhuru Park e senz’altro Odinga, ma Kenyatta si guarda bene dall’arrestarlo e sceglie di perseguire solo le comparse che ruotavano intorno al rivale, aggiungendo così alla puerilità, anche un evidente segnale di timorosa debolezza.
Intanto, mentre quotidiane dimostrazioni sono in atto a Kisumu, Migori e altre roccaforti del NASA, Raila Odinaga, in un’intervista rilasciata alla BBC, ha dichiarato che intende chiedere la ripetizione delle elezioni presidenziali nel prossimo agosto. Altre cupe nubi si addensano quindi sul futuro del Kenya, con l’ennesima frustrazione per i suoi abitanti che vedono il fondo del tunnel sempre più buio. Non è da escludere che Kenyatta, irritato dalle critiche occidentali, decida di rifugiarsi nelle braccia spalancate del partner cinese, essendo certo che da lì non gli perverranno ramanzine e su questo avrebbe certamente ragione. Un Paese che ancora impicca i propri dissidenti, non starà certo a disquisire su insignificanti dettagli come diritti umani e libertà di stampa.
Franco Nofori
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L’articolo del Washington Post si può leggere qui