Dal nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 7 gennaio 2018
Agli inizi degli anni ’80, quando approdai in Kenya, ne ricevetti la stessa visione incantata che conquista il visitatore al suo primo approccio con questa terra: il contrasto dei vividi colori; il turchese del cielo; il senso di contatto con gli archetipi universali… A Kilifi, grazie ad un investimento italiano, andava realizzandosi un resort turistico affacciato all’imbocco del creek e immerso in una stupenda vegetazione. Baobab centenari; buganvillae multicolori; Kilifi tree dalle ampie chiome ombrose; l’abbagliante carminio, dei fiori del flame tree con i rami protesi quasi a offrire un abbraccio. Fu in quello scenario paradisiaco che si realizzò la mia prima intervista in terra d’Africa.
Il mio interlocutore si chiamava William Omondi, allora segretario del Ministero del Turismo keniano. Era un luo colto e gradevole, vestito in modo ricercato e con accurata scelta degli accostamenti. Vantava con orgoglio di aver servito sotto la Corona britannica e di aver completato la sua formazione culturale nelle scuole dell’impero. La sua presenza a Kilifi era finalizzata a dare impulso alla nascente industria turistica che stava interessando la costa, industria che nei decenni successivi avrebbe conosciuto un boom strepitoso, caratterizzato da massicci investimenti dell’imprenditoria italiana.
Lo scenario del giardino che ci circondava era accattivante e feci così sistemare un tavolo con un paio di sedie all’ombra di un Kilifi tree e cominciai la chiacchierata con l’ospite. Man mano che la conversazione procedeva, notai alcuni segni di nervosismo in Omondi. Dapprima li attribuii alla natura delle mie domande, ma dovetti poi constatare che, anche con argomenti generici e banali, quel nervosismo persisteva. Un paio di volte chiesi al mio ospite se qualcosa lo disturbava, ma lui – pur continuando a guardarsi intorno con manifesta apprensione – rispose di no, finché, infine, si risolse a chiedermi: “Le dispiace se proseguiamo l’intervista in qualche altro posto?”
“Certamente no – risposi un po’ stupito – qui non si trova a suo agio?”. Lui scosse la testa e accennando all’albero che ci faceva ombra, mi diede la stupefacente risposta: “Vede – disse con assoluta serietà – questa pianta è maledetta. E’ popolata da majini che hanno un influsso negativo sulle persone”. Lo guardai sbalordito. Non avevo la più pallida idea di cosa fossero i “majini”, ma non vi era dubbio che la serietà e l’apprensione del mio ospite fossero assolutamente genuine. Non approfondii l’argomento – anche perché non sarei stato in grado di gestirlo – e ci spostammo nella veranda della reception, dove Omondi riacquistò immediatamente la disinvolta sobrietà, retaggio della sua educazione britannica.
Questa singolare esperienza costituì la prima delle molte rivelazioni sull’insopprimibile realtà africana, forse non molto appariscente, ma tenacemente compenetrata, nella filosofia, nella cultura e nel modus vivendi delle genti locali. Appresi così che in Africa, nulla avviene casualmente, ma tutto è determinato da qualche volontà altrui, esercitata attraverso sortilegi, riti propiziatori e attivazione di spiritelli maligni. Contrastare queste credenze è estremamente difficile se non impossibile e in certi casi può provocare reazioni irose e violente, quasi sempre avvallate e sostenute dalle locali autorità politiche.
La regione di Nyanza, nel luoland, è la terra del serpente sacro Omieri, un enorme femmina di pitone, lungo quasi cinque metri che, fino alla sua morte avvenuta oltre trent’anni fa, fu amorevolmente accudito, sfamato e venerato dai locali, convinti che il rettile fosse la reincarnazione di una donna dai poteri magici, vissuta precedentemente, che si chiamava, appunto, Omieri. Il trasferimento del serpente in un’area predisposta dal Kenya Wildlife, provocò una ribellione popolare, così accesa che coinvolse lo stesso governo. Ora la comunità locale ritiene che il sacro rettile continui le sue apparizioni nelle spoglie di un altro pitone.
E’ errato ritenere che queste superstizioni siano solo patrimonio delle zone rurali meno evolute. Le recenti elezioni politiche in Kenya, hanno dimostrato che anche molti candidati alle più alte cariche governative ricorriono agli stregoni per assicurarsi il successo. Davvero bizzarra è la petizione presentata alla Corte di Narok dal candidato al parlamento di Contea, Letutut Ole Masikonde, contro il rivale Mark Lejooli Lempaka che, a suo dire, avrebbe ottenuto la vittoria “Squartando una scimmia e appendendone le viscere presso alcuni seggi elettorali della Contea”. Ma se il ricorso a una petizione del genere è bizzarro, ancor più bizzarro è che la Corte l’abbia accettato anziché respingerlo.
Stando ai media locali, un gruppo di candidati ODM, avrebbe fatto ricorso agli stregoni per assicurare la vittoria della loro alleanza. La conferma l’ha data la candidata al parlamento Aisha Juma che, dopo la sconfitta della prima tornata, avrebbe testualmente dichiarato: “Ci siamo rivolti agli stregoni di Pwani, di Chony e di tutto il Kenya, perché assicurino che la ripetizione delle elezioni del 26 ottobre non abbia luogo”. Anche i candidati dello schieramento opposto pare non siano stati da meno. Stando ai pretesi accertamenti fatti dal rivale sconfitto, Ferdinand Waititu dell’alleanza Jubilee, avrebbe ottenuto la nomina di governatore della Contea di Kiambu, grazie al ricorso a pratiche di stregoneria.
Tutto questo – come dispone la legge del Kenya – fa parte delle tradizioni e delle varie culture etniche del paese che devono essere rigorosamente salvaguardate e protette. Ma è davvero “cultura” venerare un rettile? Attribuire poteri soprannaturali alle viscere di una scimmia? Temere i diavoletti maligni che albergano in un innocente albero? Basare le proprie strategie politiche sugli intrugli di uno stregone?
E’ vero, anche Giulio Cesare, prima di ogni battaglia, doveva consultare agli aruspici per stabilire se il fato sarebbe stato propizio, ma nelle sue memorie scrive: “Questa insulsa credenza del mio popolo mi costringe ad affidare la strategia di guerra alle cacche degli uccelli”. Da allora sono passati duemila anni. Ce ne vorranno altrettanti perché l’Africa decida di abbandonare stregoni e fattucchiere e affronti finalmente i suoi molti problemi, con i principi del buon governo e del raziocinio?
Franco Nofori
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