Franco Nofori
Mombasa, 3 gennaio 2018
Inizia nel sangue il nuovo anno per il Kenya. L’ennesimo attacco dei terroristi di Al Shebab lascia sul campo cinque agenti di polizia, crivellati di colpi durante il pattugliamento lungo il confine colabrodo con la Somalia. Il teatro della tragedia è sempre lo stesso, quello che ha già pagato un intollerabile tributo di vite umane per le spietate incursioni dei guerriglieri fondamentalisti: la contea di Mandera, nell’estrema regione nord-orientale del Paese, più precisamente, lungo la strada El Wak-Kotulo.
A dare notizia della spietata esecuzione, avvenuta nella serata di ieri, è stato il coordinatore regionale per la sicurezza, Mohamud Saleh. Le forze di polizia keniote, assegnate al pattugliamento dei confini, erano numerose grazie alla presenza di due contingenti autotrasportati. Ciò nonostante sono state colte di sorpresa e non sono riuscite a respingere l’attacco che, oltre alle cinque vittime, ha causato numerosi feriti. Gli attaccanti hanno anche potuto dare alle fiamme anche un camion per il trasporto truppe, riuscendo poi a dileguarsi ancor prima che i poliziotti potessero abbozzare una reazione.
“Sono fuggiti, ma siamo sulle loro tracce e li prenderemo” ha detto Saleh, ma quasi nessuno sembra condividere il suo ottimismo. La realtà è che per preparazione tattica, determinazione e addestramento, le formazioni di Al Shebab mostrano un’efficienza di gran lunga superiore a quella che il Kenya sembra in grado di potergli opporre. Tre delle cinque vittime erano riservisti e due appartenevano alla cosiddetta “polizia amministrativa”, forza normalmente destinata alla scorta di portavalori, alla sorveglianza davanti alle banche e durante eventi particolari che ne richiedano la presenza.
Secondo l’opinione delle forze dell’ordine, la penetrazione in territorio keniota degli Shebab, sarebbe conseguente alla pressione esercitata su di loro dalle truppe dell’AMISOM, la coalizione dell’Unione Africana che sotto l’egida dell’ONU tenta, ormai dal 2007, anno in cui fu costituita, di sbaragliare i ribelli in territorio somalo. Ma – è sotto gli occhi di tutti – i risultati sino ad ora ottenuti sono del tutto deludenti e più che alla fuga dei terroristi dalle loro basi in Somalia, è più ragionevole pensare ad azioni ritorsive nei confronti del Kenya, paese confinante, che ha contribuito con 4,000 uomini al progetto AMISOM.
Non solo i militari kenioti, ma un po’ tutte le forze, impiegate nel contrastare i fondamentalisti, presentano livelli di preparazione e di efficienza del tutto inadeguati all’opera. Finora il deterrente più efficace sembra costituito dalle sporadiche incursioni dell’aviazione USA nei campi di addestramento dei ribelli, ma il prezzo che l’America ha già pagato nel passato in Somalia è stato abbastanza alto da scoraggiare sue ulteriori avventure con il dispiegamento di truppe di terra.
Il totale delle forze armate del Kenya, che includono esercito, marina e aviazione, raggiunge un totale di 24,000 uomini, ciò significa che il 17 per cento di questi è stato utilizzato per l’operazione in Somalia. Le forze di polizia ammontano a 90,000 uomini, pochi per un Paese che sfiora i 48 milioni di abitanti, ma il guaio peggiore è dato dalla scarsità di mezzi e di tecnologie di cui la polizia può disporre. Molto spesso, per portare a compimento le missioni loro assegnate, devono ridursi chiedere un passaggio come un qualsiasi autostoppista e anche quando le auto sono disponibili, non è raro che siano sprovviste di carburante.
Tutto questo ha fatto sì che gran parte dell’opinione pubblica non veda di buon occhio la politica interventista del governo, che espone gli abitanti delle zone adiacenti al confine somalo alle sempre più crudeli ritorsioni degli Shebab e sarebbe favorevole ad un ritiro da quel teatro a vantaggio di un rafforzamento delle difese lungo quegli stessi confini.
Franco Nofori
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