Amnesty accusa: il Kenya sta cacciando i rifugiati somali dal campo di Dadaab

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Il campo profughi di Dadaab in Kenya

franco nofori francobolloDal Nostro Corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 21 dicembre 2017

Da quando, nel maggio dell’anno scorso, le autorità keniane hanno annunciato l’intenzione di chiudere il campo profughi, realizzato con il patrocinio dell’ONU a Dadaab, a poca distanza dai confini orientali con la Somalia, sono migliaia i rifugiati costretti a rientrare nel loro paese d’origine, dove li attendono siccità, violenze e carestia. Per ottenere lo sfollamento, gli stessi rifugiati hanno riferito che le autorità keniane sono ricorse a mezzi disumani: la sospensione nella fornitura di cibo e di servizi, oltre alle aperte minacce che costringevano i profughi a un rimpatrio forzato e senza alcuna assistenza logistica.

Da tempo il Kenya dichiara che la sua decisione è motivata dall’insufficiente supporto internazionale e dal fatto che nel campo si stavano creando focolai terroristici organizzati da Al-Shabaab. Ragioni, queste, sempre respinte dall’ONU che è stato il maggior finanziatore nella realizzazione del campo. “I rifugiati, un tempo fuggiti dalla siccità, dalla carestia e dalla violenza, sono obbligati a rientrare nel mezzo di una grave crisi umanitaria. Molti di loro non riescono ancora a tornare nei luoghi di origine e si trovano nella stessa disperata situazione da cui erano fuggiti” – ha detto Charmain Mohamed, direttore del programma “Diritti dei Rifugiati e dei Migranti di Amnesty International”.

Il campo profughi di Dadaab in Kenya
Il campo profughi di Dadaab in Kenya

In effetti, la maggior parte del territorio somalo è ancora afflitta da atroci violenze ed estrema povertà, per cui il Kenya, attuando questi rimpatri, sostiene Charmain Mohamed, “sta apertamente violando gli standard internazionali, secondo i quali i rifugiati possono essere rimpatriati solo quando la loro sicurezza e la loro dignità saranno garantite”. Situazione che, allo stato attuale, è ben lontano dell’essersi realizzata.

Il campo profughi di Dadaab ospita attualmente circa 240 mila persone, dopo che, dal maggio dello scorso, anno, vi è stata una brusca accelerazione nel flusso dei rimpatri. “Rimpatri – sostiene Amnesty International – che sono spesso spacciati per volontari, ma che sono invece ottenuti grazie a pressanti minacce rivolte dai funzionari del Kenya ai rifugiati”. E questo esodo pare continuare anche oggi, malgrado che, nel febbraio scorso, l’Alta Corte del Kenya, abbia dichiarato la chiusura del campo, un atto apertamente illegale.

La Somalia è prostrata da un conflitto interno che dura ormai da decenni. Dopo i “signori della guerra” è ora la volta del gruppo armato fondamentalista di Al-Shabaab che mantiene il proprio controllo su una gran parte del territorio nazionale, compiendo continui e indiscriminati attacchi contro la popolazione civile. “Solo dal gennaio 2016 all’ottobre 2017 – sostiene Amnesty International – vi sono state oltre 4,500 vittime civili”. Questo avviene anche a causa dell’inefficace azione di contrasto della forza multinazionale ONU, di cui il Kenya fa parte e che fino ad ora, non è riuscita a infliggere ad Al-Shabaab, significative sconfitte.

Drammatica sistemazione in territorio somalo di rifugiati espulsi dal Kenya
Drammatica sistemazione in territorio somalo di rifugiati espulsi dal Kenya

Oltre a questa situazione di estrema insicurezza, la Somalia sta anche attraversando un terribile periodo di siccità e carestia che, secondo stime delle Nazioni Unite, assoggettano oltre la metà dell’intera popolazione all’urgente bisogno di assistenza umanitaria. Nei sovraffollati centri urbani la costante carenza di acqua potabile ha fatto anche esplodere il colera che, tra luglio e gennaio di quest’anno, ha già provocato oltre 1,100 vittime. “Una tanica d’acqua sporca – ha detto ad Amnesty International uno dei rifugiati rientrato in Somalia dal campo keniano – può costare fino a 10 euro e non tutti i giorni possiamo permettercela”. La difficoltà a procurarsi il cibo può costringere intere famiglie a digiunare per tre giorni e più.

Come sempre, il tentativo di curare gli effetti, senza poter intervenire sulle cause, risulta fallimentare. L’Alto Commissariato ONU per i rifugiati è riuscito a coprire solo il 29% per cento del fabbisogno del campo rifugiati in Kenya e quasi tutte le agenzie dell’Organismo Internazionale sono in condizioni analoghe. Lo stesso Programma alimentare mondiale lamenta una grave mancanza di fondi ed è regolarmente costretto a ridurre i valor i energetici del cibo fornito ai rifugiati.

Tuttavia, pur presentando i fatti in modo lapidario, Amnesty International non attacca frontalmente il Kenya, ma imputa il fallimento delle operazioni umanitarie alla scarsa sensibilità che la comunità internazionale mostra verso questa emergenza. Rilievo certamente fondato, ma è anche vero che gli appelli alla solidarietà per situazioni di estremo bisogno, si levano da ogni parte del pianeta. E’ oggettivamente difficile attendere compiutamente a tutte, soprattutto per molti paesi europei, già alle prese con problemi di bilancio e che stanno dimostrando di non possedere neppure strumenti adeguati per fronteggiare il biblico fenomeno dell’immigrazione che sta interessando i loro territori.

Franco Nofori
franco.kronos1@gmail.co
@Franco.Kronos1

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