Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 14 dicembre 2017
La morte dell’ex presidente dello Yemen, Abdullah Saleh, ammazzato da un cecchino ribelle sciita degli huti, mentre cercava di fuggire da Sanaa, la capitale yemenita, complica la già difficile situazione di questo Paese, conteso da Arabia Saudita e Iran. In poche parole, Saleh è stato eliminato dai ribelli houthi con i quali era alleato. Dunque ora si combatte una guerra civile dentro la guerra civile. E infatti due giorni prima della sua morte, Saleh aveva fatto sapere che l’alleanza era ormai disfatta e si era dichiarato pronto ad aprire un dialogo con Riad. Ovviamente tale annuncio era stato accolto favorevolmente dall’Arabia Saudita.
Ieri nuovi raid hanno colpito in particolare un campo della polizia militare vicino alla capitale Sanaa, controllata dagli huti. Decine i morti, moltissimi i feriti. E proprio a causa dell’insicurezza che vige da diverso tempo nella capitale yemenita, la Russia ha deciso di chiudere momentaneamente la propria ambasciata a Sanaa. Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, ha riferito ai repoter di TASS (agenzia stampa russa), che il personale ha già lasciato il Paese della penisola arabica.
Saleh aveva ormai settantacinque anni, era una figura predominante nello Yemen che aveva guidato per ben oltre trent’anni, prima di essere deposto nel 2012. La sua alleanza con gli huti era fragile e i due gruppi condividevano ben poco dal punto di vista ideologico. La sua scomparsa non segnerà certamente la fine di questa orribile guerra, che ha seminato morte e distruzione in tutto il Paese.
Dal marzo del 2015 nello Yemen si consuma un sanguinoso conflitto interno, che vede contrapposto due fazioni: gli huti, un movimento religioso e politico sciita, che appoggiano il presidente destituito Ali Abd Allah Ṣaleḥ da un lato e le forze del presidente Mansur Hadi, rovesciato dagli huti con un colpo di Stato nel gennaio 2015. La coalizione saudita entra nel conflitto nel marzo 2015 a sostegno di Hadi, che a tutt’oggi è riconosciuto dalla comunità internazionale come capo di Stato.
Tra i Paesi che sostenevano la coalizione saudita, c’era anche il Sudan con le Rapid Support Forces (RSF, il nome ufficiale dei gruppi janjaweed), attive anche nello Yemen. Nel mese di settembre il comandante delle RSF, Mohamed Hamdan Daglo aveva fatto sapere che ben quattrocendodici militari sudanesi erano morti nello Yemen dal 2015. Le forze dell’RSF sostengono le truppe saudite soprattutto nel controllo delle frontiere contro gli attacchi degli huti, in poche parole sono considerate una componente essenziale nelle operazioni militari terrestri della coalizione. Ma in Sudan non tutti i politici erano concordi sulla partecipazione alla guerra nello Yemen. Hassan Osman Rizq, parlamentare e uno dei leader del Reform Now Movement, aveva chiesto il ritiro immediato delle truppe, proprio per le forti perdite subite. Tempo fa l’ambasciata di Khartoum a Sanaa, la capitale dello Yemen, era stata attaccata per la terza volta dai ribelli huti.
Durante la visita del presidente sudanese Omar al Bashir in Russia, dove ha avuto colloqui con Putin, la posizione del Sudan è cambiata nei confronti dell’Arabia saudita. Infatti Al Bashir ha espresso il suo sostegno nei confronti della politica di Putin in Medio oriente. Un messaggio di sfida rivolto a Wahington e Riad. Si vocifera persino che il Sudan potrebbe ritirare le sue truppe dallo Yemen. D’altronde Saleh, poco prima della sua morte, aveva chiesto ad Egitto e Sudan di ritirarsi dalla coalizione guidata dai sauditi.
Quando il dittatore sudanese si era recato in Sudafrica per un vertice dell’Unione Africana nel giugno del 2015, l’Alta corte di Pretoria aveva espresso il suo disappunto per suo mancato arresto. Su al Bashir pende un mandato d’arresto, spiccato dalla Corte Penale Internazionale nel 2009, per crimini di guerra e genocidio. (http://www.africa-express.info/2015/06/15/bashir-evade-dal-sudafrica-e-sfugge-alla-cattura-ordinata-dal-tribunale-internazionale/).
(http://www.africa-express.info/2016/03/18/alta-corte-sudafrica-contro-governo-illegale-e-vergognoso-non-arrestare-al-bashir-2/)
Pochi hanno parlato dell’incontro tra Putin e al Bashir a Mosca (il presidente russo ha mandato a Khartoum un aereo per assicurare al leader sudanese un tranquillo e sereno viaggio) e ancora meno hanno osato menzionare il mandato d’arresto internazionale, in quanto la Russia non è uno Stato membro del Tribunale dell’Aja.
Cornelia I. Toelgyes
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