Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 2 novembre 2017
La violenta repressione del 31 ottobre perpetrata dalle forze dell’ordine eritree contro gli inermi studenti nelle strade di Asmara ha causato 28 morti e una trentina di feriti. Il bilancio è stato diffuso da gruppi dell’opposizione in esilio e non è stato possibile confermarlo da fonti indipendenti. Ma i filmati che sono stati pubblicati sui social media (alcuni dei quali sono riportati anche qui) sono inequivocabili, nonostante il ministro dell’Informazione eritreo Yemane Gebremeskel si sia sforzato di sostenere in un twitt che “una piccola protesta in una scuola sia stata domata facilmente e senza nessuna vittima”.Propaganda di un regime che ha fatto della repressione il proprio sistema di vita.
Per altro il twitt diffuso l’altro ieri dall’ambasciata degli Stati Uniti ad Asmara è molto chiaro: parla di colpi d’arma da fuoco e ammonisce i cittadini americani di stare lontani dalle zone dove si stanno svolgendo manifestazioni di protesta.
Il gruppo d’opposizione Red Sea Afar Democratic Organization riferendosi alla repressione ha lanciato un appello alla comunità internazionale perché intervenga per assicurare alla giustizia i leader della dittatura eritrea, prima di tutto il presidente mai eletto Isaias Afeworki. Da più parti si è anche chiesto che il tiranno venga tradotto davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja e giudicato per crimini contro l’umanità.
Le notizie trapelate nei momenti immediatamente successivi alla manifestazione sono certe e sicure, compresi i video che non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Poi le autorità hanno chiuso i rubinetti di internet e le notizie non sono più filtrate. Le uniche comunicazioni ora arrivano via radio, ma sono pericolose, difficili e precarie.
Oggi è venerdì, giornata di preghiera. C’è il rischio che le manifestazioni religiose si trasformino in proteste. La gente non ne può più. Quasi trent’anni fa, quando è finita la guerra di liberazione con l’Etiopia tutti si aspettavano prosperità, pace e crescita. Nessuno pensava che un combattente per la libertà come Isaias Afeworki, si trasformasse in un sanguinario tiranno, che ha tradito i suoi amici sbattendoli in galera. Di loro si è persa ogni traccia dal settembre 2001. Nessuno pensava di dover scappare in massa verso l’Europa su barconi dove morire è di una facilità impressionante. E all’estero le manifestazioni di dissenso si moltiplicano fino ad arrivare ad aggredire fisicamente gli esponenti del regime in visita fuori dal loro Paese, come è successo a Roma poche settimane fa.
Secondo alcuni attivisti antigovernativi esuli in Europa e in America sentiti da Africa ExPress, le proteste sono cominciate la settimana scorsa quando il governo ha intimato alla Diaa Islamic School di Asmara, un istituto privato a indirizzo musulmano, ma né integralista né a direzione fanatica, di piegarsi alle direttive didattiche del governo, cioè di cancellare dal curriculum degli studenti le ore di religione.
Il presidente onorario della scuola, cui sono iscritti quasi 3000 studenti ed è stata fondata negli anni ‘60,Hajji Musa Mohamed Nur, 92 anni, eminente personaggio di cultura impegnato da anni in attività sociali e assistenziali, ha protestato pacificamente tentando di far capire ai militari l’importanza del suo istituto radicato non solo nella comunità islamica ma anche nella società eritrea. E’ stato arrestato e portato in caserma. L’intenzione evidente delle autorità è quella di impadronirsi della struttura scolastica. Infatti il 31 ottobre, cioè qualche giorno dopo la prima visita, i soldati si sono ripresentati ordinando che fossero immediatamente eseguite le direttive decise dal governo.
Sono scattate da un lato la protesta pacifica e dall’altro la reazione violenta delle forze dell’ordine che hanno sparato ad altezza d’uomo sui dimostranti. Alivideo postati su Africa ExPress martedì scorso ne è seguito un altro qui. Si vede l’arrivo dei soldati nel campus della scuola e i colpi di mitra sparati dagli agenti.
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Ma i colpi di mitra non hanno fermato la protesta che si è spinta fuori dal recinto dell’istituto nelle strade del quartiere Akria, abitato soprattutto dai musulmani. E agli studenti si sono aggiunti comuni cittadini, a formare un corteo. Ci vuole un grande coraggio in Eritrea a scendere in strada e protestare. Il regime tirannico – che riunisce assieme le peggiori caratteristiche del fascismo e dello stalinismo – non permette libertà di espressione o di riunione e tantomeno di critica. Gli scherani della dittatura sono pronti a sbattere in galera quelli che manifesto anche il più piccolo dissenso. Nelle classifiche internazionali della repressione l’Eritrea occupa l’ultimo posto, assieme alla Corea del Nord: non c’è Costituzione, è vietato manifestare il proprio pensiero, non esistono partiti politici né giornali indipendenti. I giovani non hanno un futuro se non quello di finire in un campo di lavoro per un servizio militare che non si sa bene quando termina. Il dittatore ha organizzato un sistema basato sulla paura e sul terrore dove esercita il potere con il pugno di ferro e il cinismo più spietato. Una società piena di spie pronte a denunciare comportamenti non favorevoli al regime.
Questa volta però sono scese in piazza centinaia di persone sfidando i mitra dell’esercito che non hanno tardato a gracchiare mentre le manette tintinnavano prima di chiudersi ai polsi di dimostranti giovani e vecchi. Tra gli arrestati figurano Mahmud Yemen, Nureddin Osman Enkir, Yasin Osman Enkir, Mohammed Abdella Taha, studenti finiti dietro le sbarre.
E la protesta si è estesa in altre aree del Paese. Si dice che a Tesseney, quasi al confine con il Sudan, i dimostranti hanno circondato la guarnigione del locale carcere e liberato i detenuti, molti dei quali politici, mentre ad Assab, come mostra il video qui sotto una gruppo di ragazzi ha preso a sassate i soldati che pattugliavano un quartiere.
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Il regime eritreo si trova ora a fronteggiare la sua gente inerme e indifesa e molti sono convinti che le proteste non si fermeranno. La paura della repressione ormai è in secondo piano rispetto alla voglia di rovesciare un regime che nega tutte le libertà e costringe i suoi giovani e fuggire in Europa affrontando un viaggio difficile e pericolosissimo. La numerosa diaspora eritrea che vive all’estero si domanda perché il mondo è pronto a contrastare la Corea del Nord, mentre fa poco o nulla per far tornare alla democrazia un Paese che avrebbe possibilità enormi, se non fosse in mano a un crudele dittatore che ha distrutto il tessuto sociale del Paese riducendolo a un’enorme prigione a cielo aperto.
In un’intervista rilasciata al network televisivo Al Jazeera, Saleh Gadi Johar, un attivista eritreo basato in California editore del sito antigovernativo awate.com ha spiegato come secondo lui le proteste di martedì “spalancano una grande porta” . “I dimostranti sono scattati e penso che altri seguiranno, soprattutto i giovani che sono apparsi uniti e determinati”.
“Non credo che il twitt diffuso dall’ambasciata americana – ha proseguito – sia un segnale di grande sviluppo politico. Non mi aspetto nulla da Stati Uniti e Occidente, nonostate le sofferenze del popolo eritreo. È il cinismo della politica, un copione già visto altre volte e che al solito si ripete. Io non voglio che nel mio Paese sia sparso sangue. Desidero una transizione pacifica e tranquilla, ma se non sarà così vedremo tempi drammatici purtroppo. Saranno giorni tristi ma che dovevano accadere “.
E mentre gli autonominatisi rappresentanti della Comunità Eritrea Italiana protestano (il loro comunicato è qui accanto) perché i
L’Asper (Associazione per la tutela dei diritti umani del popolo eritreo) ne ha prevista una anche a Roma, mentre il gruppo Freedom Friday a Londra e Stoccolma.
Massimo A. Alberizzi
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