Speciale per Africa ExPress
Sandro Pintus
Firenze, 18 ottobre 2017
Era un pigmeo Batwa di soli 17 anni e si chiamava Mbone Christian Nakulire. È stato assassinato a freddo dai guardaparco perché, con il padre Mobutu Nakulire Munganga, era entrato nell’area “protetta” dalla Wildlife Conservation Society (WCS), la fondazione di conservazione imparentata con lo zoo del Bronx di New York.
Si tratta dell’ultimo dei tanti omicidi che si conoscono di pigmei che vivono delle foreste del Bacino del Congo. Questa volta è accaduto nel Parco nazionale di Kahuzi-Biega, sei mila kilometri quadrati di foresta pluviale ad est della Repubblica Democratica del Congo.
Eppure dal 1500 a.C. vaste aree delle foreste pluviali del bacino del grande fiume africano sono sempre state territorio dei pigmei ma grandi associazioni di “conservazione” come il WCS e WWF attraverso i ranger da loro addestrati e pagati, non permettono alle popolazioni native di raccogliere erbe medicinali e frutti e di cacciare per mantenere le loro famiglie.
Mobutu Nakulire non può e non vuole accettare la morte del figlio ammazzato così giovane dalle guardie del parco per un atto che per la vita dei pigmei deve essere la normalità della loro giornata.
Con sua moglie, Mauwa M’Nachabi, ha deciso di scrivere a Cristián Sampe, presidente e amministratore delegato della Wildlife Conservation Society per denunciare l’omicidio del loro figlio e il suo ferimento da parte delle guardie anti-bracconaggio della WCS.
Il 26 agosto 2017, padre e il figlio sono entrati nel parco per raccogliere delle piante medicinali e hanno incontrato una squadra di quattro guardaparco. Nella lettera di denuncia Mobutu racconta che hanno sentito dire da uno dei ranger “Non bisogna uccidere suo figlio” mentre gli altri hanno risposto “Li dobbiamo eliminare” e hanno sparato.
Il ragazzo è stato ucciso mentre il padre, ferito al braccio destro, è riuscito a scappare ed è stato poi portato in ospedale dove è rimasto quasi un mese.
“Mi hanno detto che, secondo la Carta africana, tutti i grandi progetti che sono nel nostro territorio devono avere il nostro consenso – si legge nella lettera di Mobutu al presidente della famosa fondazione newyorkese creata nel 1895 – e che la WCS ha adottato una politica dei diritti umani che gli impone di rispettare questo principio. Nessuno è mai venuto a chiederci il consenso per il Parco nazionale di Kahuzi-Biega, allora perché il WCS continua a finanziare coloro che ci vogliono uccidere? Niente potrà mai compensare la perdita di mio figlio ma consegno questa denuncia affinché possiate aiutare me e il mio popolo ad avere giustizia e a tornare nelle nostre terre”.
Dura presa di posizione di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, attraverso il direttore generale Stephen Corry: “Questa tragedia è l’ultimo capitolo di una lunga e vergognosa storia. Prima il popolo del signor Nakulire è stato sfrattato illegalmente e violentemente dalle proprie terre, e oggi rischia la morte se prova a farvi ritorno. La WCS deve mantenere le sue promesse sul rispetto del diritti dei Batwa. Se non hanno il loro consenso per ciò che stanno facendo, semplicemente non dovrebbero trovarsi lì.”
La Wildlife Conservation Society ha un progetto di protezione dei gorilla nel parco nazionale Kahuzi-Biega dove, attraverso i ranger, interviene contro i bracconieri. Per le guardie anti-bracconaggio anche i pigmei, popolazione di cacciatori-raccoglitori che hanno sempre usato le foresta per nutrire le loro famiglie, vengono ritenuti bracconieri ma fino ad oggi né WCS né WWF sono intervenuti per fermate gli abusi.
Survival International continua a denunciare abusi, pestaggi, mutilazioni, sfratti, distruzione di case e villaggi e perfino omicidi per mano di guardaparco finanziati e equipaggiati dal WWF e WCS che hanno accordi con società di legname e operano nelle foreste del Bacino del Congo. Tutto ciò accade in nome della “conservazione”. Da poco l’ong per i diritti peri popoli indigeni ha pubblicato “How will we survive?” (Come possiamo sopravvivere?) un report che documenta oltre 200 casi di gravi abusi contro le popolazioni della foresta in Camerun, nella Repubblica del Congo e nella Repubblica Centroafricana.
Sandro Pintus
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