Andrea Spinelli Barrile
Milano, 22 settembre 2017
Secondo uno studio recentemente pubblicato dall’ONG Oceana, che si occupa di conservazione ed advocacy degli ambienti marini oceanici, diversi paesi europei avrebbero violato apertamente le norme comunitarie che regolano l’attività di pesca autorizzando i propri pescherecci a spingersi fino alle acque territoriali africane del Gambia e della Guinea Equatoriale.
Portogallo, Spagna, Grecia e Italia, sulle cui tavole il pesce abbonda ogni giorno, avrebbero violato le regole comunitarie spingendosi troppo oltre: secondo lo studio, elaborato dai dati dei sistemi trasponder e AIS di diversi pescherecci europei, ben 19 di queste navi avrebbero trascorso illegalmente 31.800 ore nelle zone economiche marittime esclusive di Gambia e Guinea Equatoriale, all’interno tratto di mare che va dalla costa fino alle 200 miglia, nel periodo compreso tra l’aprile del 2012 e l’agosto del 2015.
Va specificato che il monte ore calcolato da Oceana è quasi interamente indicativo dell’attività di pesca nelle acque gambiane: nel caso della Guinea Equatoriale infatti solo un peschereccio spagnolo avrebbe pescato illegalmente, un’attività durata 170 ore.
Dal rapporto di Oceana si evince chiaramente come i pescherecci italiani siano i più inclini a svolgere attività di pesca illegale nelle acque africane: 5 pescherecci con le Repubbliche Marinare sul vessillo che hanno navigato e pescato per un totale di 12.537 ore a largo del Gambia, un primato europeo decisamente poco edificante. L’attività di pesca illegale delle navi italiane evidenziata nello studio è iniziata nel 2014 e proseguita nel 2015 e nulla fa supporre che questa si sia interrotta nell’ultimo anno e mezzo. Attratte in particolare dai tonni di grande pezzatura ed alto valore economico, che abbondano in quei mari e che un tempo abbondavano anche nel Mediterraneo, molte navi da pesca operano illegalmente a largo dell’Africa occidentale, causando spesso incidenti diplomatici anche gravi. Uno dei più recenti vide la nave “Idra Q” della società Italfish Srl di Martinsicuro – che ha una base operativa anche in Senegal – sequestrata nel marzo 2015 dalle autorità del Gambia, paese all’epoca sotto la dittatura di Yahya Jammeh: due pescatori italiani furono trattenuti per settimane in un carcere di Banjul con l’accusa di avere avuto a bordo reti con maglie non regolamentari.
La pesca illegale costa ogni anno all’economia dell’Africa occidentale ben 2,3 miliardi di dollari: una fetta importante, il 10% del valore dell’intero settore ittico, stimato dalla FAO in 24 miliardi di dollari l’anno. Gambia e Guinea Equatoriale negoziano da anni, con l’Unione Europea e i singoli paesi membri, accordi ufficiali che permettano l’accesso dei pescherecci europei nei loro mari, senza i quali accordi è semplicemente illegale pescare in quelle acque. La ragione è molto semplice e prende esempio da quanto successo nel Mediterraneo con il tonno rosso, una specie che oggi è praticamente in via di estinzione dopo decenni di pesca intensiva: gli accordi con i paesi africani servono a stringere la sorveglianza, dare garanzie agli equipaggi e consentire la pesca solo delle scorte in eccedenza, salvaguardando quindi la fauna marittima. Per questa ragione la Guinea Equatoriale ha negoziato per anni, tramite l’ambasciatrice residente in Italia e tramite l’ex-ambasciatore alla FAO, un accordo con il distretto pesca di Mazara del Vallo (Tp) e con altri enti italiani del settore ittico, e sempre per questa ragione da sei anni sia la Guinea Equatoriale che il Gambia partecipano al Blue Sea Land, un Expo internazionale dei distretti agroalimentari del Mediterraneo, Africa e Medio Oriente che si tiene, guarda caso, proprio a Mazara del Vallo. Come mai i due paesi partecipano a questa importante ed esclusiva fiera internazionale senza avere alcun accordo in piedi con le autorità centrali italiane ed europee?
Per ben due volte la Commissione Europea, nel gennaio 2014 e nell’aprile 2015, ha intimato ai paesi i cui pescherecci violavano le norme di smetterla con questa pratica, spiegando che se gli accordi e le trattative con i paesi africani erano ufficialmente “sospesi” allora anche l’attività di pesca andava “sospesa”, anche in presenza di accordi privati. Ma nessuno sembra averci fatto molto caso ed è curioso osservare come a commettere gli illeciti siano, secondo il rapporto, imbarcazioni provenienti da Paesi con forti normative giuridiche.
“Il distretto in questi 10 anni ha coltivato accordi leali di cooperazione con Paesi del Mediterraneo, Africa e Medioriente, trasferito il know-how delle nostre imprese, per proporre il modello distrettuale secondo la filosofia della Blue Economy. Ciò vuol dire creare ponti, dialogare. Da parte di questi Paesi vi è un forte interesse a cambiare rotta in direzione dell’economia circolare, del restauro e della rigenerazione delle risorse naturali a partire dall’acqua. Credo che il dialogo attraverso una cooperazione responsabile sia la chiave del cambiamento per salvare i nostri mari e le risorse sia marine che terrestri” spiegò all’ANSA Giovanni Tumbiolo, presidente del distretto pesca di Mazara e di Crescita Blu.
Secondo il rapporto pubblicato da Oceana le diverse navi scoperte a svolgere attività di pesca illegale nei mari africani avrebbero stretto accordi privati con le autorità dei due stati, entrambi in fondo alle classifiche di tutto il mondo per quanto riguarda la corruzione. Proprio la Guinea Equatoriale ed il Gambia sono due delle cleptocrazie più affamate del continente africano: non a caso l’ex-presidente gambiano Yahya Jammeh, dopo aver mantenuto il potere assoluto fino a gennaio di quest’anno e arrivando quasi alla guerra col Senegal, ha chiesto ed ottenuto un esilio dorato dal suo amico Teodoro Obiang, presidente della Guinea Equatoriale e leader africano più longevo. Jammeh ha trafugato centinaia di milioni dalle casse dello Stato gambiano, arraffato tutti i beni mobili che poteva, caricato tutto su diversi voli cargo diretti a Malabo e infine è fuggito, con tutta la famiglia, pensionandosi in una faraonica villa nella capitale equatoguineana.
Trattandosi di due paesi ad altissimo tasso di corruzione e bassissimo di trasparenza viene anche da chiedersi con chi abbiano stretto accordi le diverse aziende ittiche europee che operano illegalmente nei mari africani: è difficile, per non dire impossibile, operare con il beneplacito del governo di Banjul o di Malabo senza avere elargito somme generose già in presenza di accordi ufficiali ma quando tutto viene fatto al di fuori della legalità allora non è una semplice supposizione quella che porta a chiedersi “chi è stato pagato e quanto?” da parte delle compagnie di pesca europee. Il rapporto di Oceana, in sintesi, dimostra due cose: la prima è che senza una regolamentazione internazionale, transnazionale e bilaterale con gli altri Paesi difficilmente tali attività potranno essere sostenibili per l’ambiente marino e la seconda è che difficilmente tali accordi potranno essere firmati senza avere ottenuto prima specifiche garanzie sullo stato di diritto. Garanzie che forse, e solo oggi, è in grado di fornire unicamente il nuovo Gambia di Adama Barrow; per la Guinea Equatoriale invece la strada è ancora molto lunga.
Andrea Spinelli Barrile
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