Franco Nofori
Mombasa, 17 settembre 2017
Secondo una recente ricerca del quotidiano britannico The Sun, sembrerebbe proprio che il cannibalismo, sia durante ritualità tribali, sia come semplice supporto alimentare, esista ancora in varie parti del pianeta ed è fortemente radicato nelle abitudini e nei costumi di chi lo pratica.
I Paesi in cui il ripugnante uso di cibarsi di carne umana sembra essere più diffuso, sono prevalentemente asiatici: India, Papua Nuova Guinea ed Isole Fiji, ma non ne sarebbero estranei anche molti paesi africani, tra i quali il Congo e la Liberia.
Si ricorderà, inoltre, che il dittatore ugandese Idi Amin Dadà e quello della Repubblica Centro Africana, Jean-Bédel Bokassa, conservavano in frigorifero il cuore ed altri organi dei nemici uccisi per cibarsene ed appropriarsi così delle loro energie spirituali.
Il cannibalismo, a scopi rituali, permane peraltro anche sulla costa del Kenya, per propiziare, per esempio, un buon raccolto (http://www.africa-express.info/2017/07/15/sacrifici-umani-il-racconto-terrificante-e-orribile-del-marito-di-una-vittima/)
In Papua Nuova Guinea, la tribù tribù dei korowai, situata lungo il Ndeiram Kabur River, si ciba dei resti dei compagni uccisi al fine di vendicare la loro morte. Nelle isole Fiji – un tempo denominate “Isole dei cannibali” – il ricorso all’usa alimentare di carne umana assolve, invece, ad una semplice necessità, un tempo diffusa in tutto il Paese ed ora solo circoscritta alla tribù dei Naihehe Caves, in Sigatoka, dove è ancora intensamente praticata. I monaci della setta indiana degli Aghori, piccolo gruppo stanziale lungo le rive del Gange, si cibano dei resti di cadaveri, morti per cause naturali al fine di accrescere la propria spiritualità e si adornano con alcuni organi estratti dai corpi già in decomposizione. I soldati dell’esercito cambogiano, durante la feroce e sanguinosa guerra contro i Khmer Rossi, estraevano cuore e fegato dai nemici uccisi per cibarsene con calma al termine degli scontri.
In Africa la situazione non si presenta molto diversa da quella asiatica. Il primato del cannibalismo, sempre secondo la ricerca dello Star, apparterebbe alla Repubblica Democratica del Congo, dove i pigmei Mbuti, attraverso il loro portavoce, Sinafasi Makelo, hanno denunciato alla Nazioni Unite che i ribelli congolesi della provincia di Ituri, si cibano dei loro compagni, divorandoli vivi.
Ma tra tutte queste rivoltanti pratiche, quella che più sbalordisce è forse quella che viene dalla Liberia, il paese creato con il supporto degli Stati Uniti, che doveva essere un fulgido esempio dell’emancipazione africana e della capacità all’autodeterminazione delle sue genti. Dopo il sanguinoso conflitto capeggiato da Charles Taylor, condannato nel 2002 dal tribunale internazionale ONU per crimini contro l’umanità, la Liberia, la cui bandiera richiama quella degli Stati Uniti ed ha per capitale Monrovia, così battezzata in onore al presidente americano James Monroe che nel 1823 la rese indipendente, stanca dei continui eccidi, vide sorgere al suo interno, un movimento che invocava un governo retto dagli Stati Uniti, loro antichi schiavisti.
Una così appassionata spinta verso i principi di libertà, di legalità e di giustizia, non potrebbe certo far pensare che la Liberia potesse di colpo ricadere nei barbari costumi delle peggiori superstizioni africane. Ma invece, un dettagliato rapporto di Medici Senza Frontiere, inoltrato ad Amnesty International, evidenzia che gli atti di cannibalismo, largamente diffusi durante la guerra civile, ancora sopravvivono nelle ritualità tribali del Paese. Interrogato al riguardo dal Sun, un esponente delle Nazioni Unite, che ha chiesto di restare anonimo, avrebbe risposto ammiccando: “Ciò che avviene dei corpi delle vittime decedute a seguito di violazioni dei diritti umani, non è cosa di nostra competenza.”
Franco Nofori
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