Franco Nofori
Mombasa, 12 settembre 2017
Le elezioni presidenziali dell’8 agosto scorso erano già costate al Kenya la strepitosa somma di circa 400 milioni di euro. Una delle più alte cifre mai spese in Africa per una consultazione elettorale. Ed ora, in forza dell’annullamento del risultato, che vedeva vincente il partito Jubilee di Uhuru Kenyatta, il Tesoro del Kenya ha ricevuto in questi giorni da Ezra Chiloba, direttore esecutivo dell’IEBC (Commissione Elettorale) la richesta di altri 100 milioni di euro per la seconda tornata che dovrebbe tenersi il 17 ottobre.
Per uscire da questo sofferto periodo di stallo, che sta affliggendo la già precaria situazione economica del Paese e avere finalmente una leadership legittimata a governare, ogni nucleo familiare del Kenya dovrà quindi farsi grosso modo carico del costo di 60 euro, vale a dire, circa la metà dello stipendio medio mensile di un cittadino che ha la fortuna di avere un impiego.
Una cifra che, dal punto di vista occidentale, potrebbe forse apparire modesta, ma stando ai dati di Index Mundi (aggiornati al 2015) il 43% della popolazione del Kenya, vive sotto la soglia di povertà, cioè con meno di 1,5 dollari al giorno. La mortalità infantile ha raggiunto il 40 per cento, mentre il debito pubblico è al 52,2 per centodel PIL che l’Index Mundi valuta in circa 65 miliardi di euro. Positivo, in questo scenario abbastanza deludente, è il trend di crescita economica che si prospetta in un 5 per cento annuo, ma resta tuttavia altissimo il tasso di disoccupazione che ormai da diversi anni non si schioda da un 40 per cento tondo, aggravato anche dall’imponente e costante crescita demografica.
Fin dall’adozione del sistema multipartitico, introdotto nel 1992, nessuna consultazione elettorale si è mai svolta in Kenya senza violenze, morti e sospette manipolazioni del voto. L’anelito al potere, con i privilegi e gli arricchimenti che ciò comporta, resta l’imperante patologia che affligge, non solo la classe politica Kenyana, ma anche quelle di una larga parte dei paesi africani. Le varie classi dirigenti che si sono alternate alla guida del paese, non si sono mai preoccupate di consolidare gli enormi flussi turistici realizzati negli anni ’90, quando questo settore rappresentava la voce più importante nell’economia del paese.
Quasi tutti i proventi che entravano in valuta pregiata, venivano fagocitati dall’apparato governativo senza che il trend degli arrivi fosse mai stato irrobustito da un minimo di investimenti per creare le infrastrutture atte a favorirlo: acqua, corrente elettrica, trasporti e strade. La stessa cosa è avvenuta nei riguardi di altri prodotti in cui il Kenya primeggiava a livello mondiale: tè, caffè, piretro. Esportazioni, queste, che hanno visto il Kenya cedere i suoi primati ad altri paesi più intraprendenti e con più oculate amministrazioni pubbliche.
Questo stallo che da ormai quasi sei mesi paralizza il paese e le sue attività produttive, proprio non ci voleva ed è tale da scoraggiare qualsiasi progetto imprenditoriale. La colpa di questo stato di cose risiede una classe politica perennemente litigiosa, che da troppi anni presenta sempre le stesse facce che ora si candidano in uno schieramento ed ora nell’altro, non per adesione ai progetti di crescita del paese, ma scommettendo sulle probabilità di vittoria di chi si contende il successo, solo per potersi assicurarsi un posto alla mangiatoia dei potenti. Tutto questo non può che avvilire il concetto di democrazia, già peraltro avvelenato dalle superstizioni e dal radicato tribalismo.
C’è molto di irresponsabile in un Paese che spende quasi l’8 per cento del suo Prodotto Interno Lordo per portare i propri candidati al potere, candidati che si azzannano tra loro come cani rabbiosi e che la TV locale NTV, definisce nel titolo di un suo servizio: “Uniti nell’odio”. Del resto questa è l’Africa e questo è il processo democratico, quel processo di cui Wiston Churchill diceva: “E’ spaventosamente inadeguato, ma tutti gli altri sono peggio.”
Tuttavia, questa enunciazione dell’eminente ex primo ministro britannico, non pare del tutto condivisa dall’inviato speciale della BBC, Fergal Kean, un valente giornalista pluripremiato per la sua integrità e per i sempre propugnati principi di diritto all’autodeterminazione. Quando Kean assistette al terrificante massacro ruandese (quasi un milione di morti in poco più di tre mesi) si trovò a commentare che, forse, l’Africa, non era ancora pronta per quella gestione democratica incautamente esportata dall’Occidente.
Franco Nofori
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