Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 1° Settembre 2017
Una coraggiosa donna italiana, punta il dito contro i soldati sud sudanesi senza esitazioni durante il processo per stupro che si sta svolgendo in questi giorni in un tribunale di Juba, la capitale del più giovane Paese della Terra.
La nostra connazionale, una figura chiave di questo processo, ha identificato alcuni dei militari, accusati di stupro di gruppo e di omicidio. I dodici soldati hanno inoltre costretto le sopravvissute (5 donne straniere) di assistere all’omicidio di una giornalista sud sudanese e al saccheggio dell’albergo. E’ stata l’unica delle vittime a presentarsi davanti ai giudici. Sarebbe importante che anche le altre si facciano avanti.
In questo Paese, dove si consumano i più efferati crimini, difficilmente i fautori di questi delitti vengono portati davanti ad un Tribunale. E’ praticamente assente lo Stato di diritto, ecco perché questo processo assume un’importanza senza precedenti.
La testimone italiana ha rilasciato la scorsa settimana un’intervista all’Associated Press in modo anonimo perché teme ripercussioni. In tale occasione ha sottolineato: “Gli uomini non corrono gli stessi rischi delle donne, loro possono difendersi e reagire alle aggressioni e violenze sessuali”.
L’assalto all’albergo Terrain è avvenuto a Juba l’11 luglio dello scorso anno, subito dopo violenti scontri tra le truppe del presidente Salva Kiir e quelle leali all’ex vicepresidente Riek Marchar. E secondo un video dell’AP, le vittime avrebbero chiesto aiuto ai caschi blu della vicina base dell’ONU, che non avrebbero risposto immediatamente a tale richiesta. L’ONU ha poi aperto un’inchiesta interna su questo fatto. Ma in particolare il governo degli Stati Uniti ha fatto pressione sul Sud Sudan affinchè le autorità procedessero per vie legali contro i dodici militari ritenuti responsabili dei delitti descritti sopra. Gli USA hanno inoltre offerto il loro supporto durante la fase investigativa per la raccolta delle prove necessarie.
Il processo era arrivato ad una fase di stallo il mese scorso, perchè i giudici e la Corte militare si rifiutavano di accettare le testimonianze delle vittime sopravvissute via internet. Hanno persino minacciato di archiviare i crimini di stupro di massa e assassinio se le vittime non si fossero presentate di persona all’udienza. Fortunatamente ora hanno fatto un passo indietro e hanno ammesso le dichiarazioni dei testimoni online.
La donna italiana, che ha lavorato nel Sud Sudan come operatrice umanitaria, ha precisato di essere stata terrorizzata quando le è stato chiesto di ritornare nel Paese: “Avevo paura che tutto ciò potesse accadere di nuovo, ma ho capito che la mia presenza era indispensabile, dovevo dare voce ai milioni di vittime di questo Paese. Ho riconosciuto immediatamente quattro dei colpevoli”.
La testimonianza della nostra connazionale ha dato un nuovo imput e credibilità a questo processo e il suo atto coraggioso è stato apprezzato dagli osservatori, ha sottolineato Joanne Mariner, consiglere di crisi di Amnesty International.
Le udienze riprenderanno alla fine di ottobre e si spera che altri testimoni si faranno avanti dopo questo grande esempio che ha saputo dare la giovane italiana.
Violenze e stupri sono all’ordine del giorno. Non si muore solo per le pallottole o per i colpi di machete, in questo Paese si viene uccisi anche dalla fame, perchè fame e stupri sono vere e proprie armi da guerra. (http://www.africa-express.info/2017/07/06/catastrofe-umanitaria-sud-sudan-infuria-la-guerra-non-ce-cibo-la-gente-muore/). Nel Sud Sudan non si ammazza solo la popolazione ma anche giornalisti e operatori umanitari, oltre ottanta impiegati di ONG hanno perso la vita dall’inizio del conflitto.
L’attuale situazione nel Sud Sudan è frutto di una guerra civile iniziata ormai più di tre anni fa: il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, aveva accusato il suo vice Riek Marchar, un nuer, di aver complottato contro di lui, tentando un colpo di Stato. Da allora sono iniziati i combattimenti tra le forze governative e quelle fedeli a Machar. I primi scontri si sono verificati il 15 dicembre 2013 nelle strade di Juba, la capitale del Paese, ma ben presto hanno raggiunto anche Bor e Bentiu. Vecchi rancori politici ed etnici mai risolti, non fanno che alimentare questo conflitto.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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