Franco Nofori
Mombasa, 1°settembre 2017
La notizia erutta come una bomba, nella tarda mattinata, dalle reti TV di tutto il paese. La Corte Suprema ha accolto la petizione presentata dal NASA e ordina che le elezioni siano ripetute entro 60 giorni da oggi. Con questa sentenza, raggiunta con quattro voti favorevoli su sei, i supremi giudici riconoscono implicitamente che Raila Odinga aveva ragione: i risultati elettorali dell’8 agosto sono stati manipolati ai suoi danni. Esplodono i festeggiamenti tra i suoi sostenitori, nel silente sconcerto di quelli dell’avversario Uhuru Kenyatta e brilla sul tutto il vergognoso imbarazzo degli osservatori internazionali che hanno frettolosamente posto il loro imprimatur sul corretto svolgimento del processo elettorale.
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E’ noto che verso Raila Odinga, l’occidente non provi grandi simpatie per i suoi ripetutamente dichiarati orientamenti marxisti ereditati dal padre. Entrambi erano amici di Fidel Castro ed entrambi guardavano al regime di Nyerere in Tanzania, come al faro ispiratore per la loro affermazione politica. Come nell’italia del dopoguerra molti nomi di battesimo svelavano le simpatie politiche paterne – Edda, Ciano, Vittorio, Benito – così Raila manifestò le sue tendenze ideologiche nel nome che attribuì al suo unico figlio che, fino al giorno della sua sventurata scomparsa di pochi hanni fa, portò il nome del dittatore cubano Fidel Castro.
Se l’ostilità occidentale verso Raila, può avere una sia pur discutibile motivazione, soprende però il responso della delegazione di osservatori del Commowealth, guidata dall’ex premier sudafricano Tembo Mbeki che, al pari di europei ed americani, legittimò anche lui la vittoria di Uhuru Kenyatta subito dopo che questa venne proclamata dalla commissione elettorale. Atteggiamento quantomeno sosprendente, visto che Mbeki, forse più ancora del suo augusto predecessore Nelson Mandela, era un risoluto attivista rivoluzionario sin dai tempi dei suoi studi in Gran Bretagna, quando nello scontro con un robusto Bobby londinese, ne usci con un incisivo rotto che lui, a ricordo del proprio passato marxista, conserva tuttora.
Tutto da rifare insomma, per il presunto vincitore kikuyu, Uhuru Kenyatta ed il suo vice kalenjin, William Ruto che restano in stand by, insieme ai rivali, il luo, Raila Odinga ed il suo vice, il Kamba, Kalonzo Musyoka, fino alla prossima tornata elettorale. Si esulta a Kisumu, Kibera, Mathare, Mombasa e in tutta la costa. Mentre in un plumbeo silenzio, sfilano facce lunghe e disperate a Gatundu, feudo di Kenyatta, ed in tutta la Rift Valley per una sconfitta, non ancora confermata dall’esito delle prossime consultazioni, ma comunque del tutto inaspettata. Nel trascorrere delle ore, però, anche i sostenitori di Kenyatta ritrovano brio. In fondo la loro vittoria non è irrimediabilmente perduta, ma solo (sperano) rinviata di due mesi.
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Fatto salvo il sacrosanto principio di ogni sistema democratico, secondo il quale è solo la sovranità popolare che ha il diritto di scelta sui leader che dovranno rappresentarla, non ci si può tuttavia esimere dal chiedersi quale impatto questa decisione della Suprema Corte avrà sul tessuto sociale ed economico del paese. E la risposta non può essere che una: disastroso. Le spese per la chiamata alle urne rappresentano per qualsiasi paese un costo che fa vibrare anche le più solide casse pubbliche. Immaginiamo quale può essere l’effetto su un’economia arrancante come quella del Kenya che è tenuta artificiosamente in vita grazie agli interventi assistenziali esteri.
Inoltre, è già da almeno un semestre che il paese soffre di un immobilismo totale in attesa di queste elezioni. Molti imprenditori, temendo violenze, hanno lasciato il Kenya per rifugiarsi all’estero. L’economia ristagna. Nessuno prende iniziative e tutti gli investimenti sono rinviati in attesa di tempi più stabili. Ora, questo ulteriore rinvio lascia di fatto il paese privo di governo, senza contare che non si può prevedere, cosa accadrà una volta resi noti gli esiti del prossimo voto. C’è il rischio che gli sconfitti, chiunque essi siano, non accetteranno pacificamente il verdetto delle urne e si lasceranno andare alle tragiche violenze sperimentate in passato.
I siti dei vari ministeri degli esteri internazionali, oltre a quelli dedicati alle informazioni turistiche, scoraggiano, quando non sconsigliano decisamente, di programmare vacanze in Kenya. Del resto che altro ci si potrebbe aspettare da chi ha il dovere di informare e proteggere l’incolumità di chi li interpella? I due mesi di attesa per la nuova chiamata alle urne, porteranno il paese proprio a ridosso della sua più alta stagione turistica. Non occorre essere una Casandra per prevedere che questa situazione infliggerà un altro duro colpo al già agonizzante apparato ricettivo del Paese.
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Intanto le tv locali continuano a trasmettere immagini di esultanza che nel rispetto degli usuali canoni africani, si attuano nell’isteria e nell’irrefrenabile parossismo. Gente che si denuda, che stramazza a terra per eccesso di esaltazione, che lancia ululati al cielo invocando divinità sconosciute. Difficile convincersi che tutto questo faccia parte della preparazione interiore al sereno esercizio democratico. Qui la scelta del candidato ha la stessa connotazione della tifoseria calcistica. Non importa che la squadra del cuore vinca per un rigore non assegnato all’avversario. L’importante e che vinca è basta, se no che squadra del cuore sarebbe?
La conferma ci viene da alcuni di loro, gli elettori. Simon, un giovane kikuyu che vive e lavora sulla costa, dice: “Raila non deve assolutamente vincere! Non possiamo avere un tuo (l’etnia di Raila,ndr) al governo!” E se vincesse? “Non deve vincere! – E’ la categorica risposta – Dobbiamo farlo perdere a qualunque costo!” Anche con i brogli? “Sì, se è necessario anche con quelli!” Non molto diversa e l’opinione di Anne una giovane e graziosa luo che fa la segretaria in ufficio di Mombasa. “Basta con i kikuyu! – afferma – E’ ora il nostro turno di prendere il potere!” E se non ci riuscirete? “Faremo come fanno sempre loro: ruberemo il risultato!”
E’ triste rilevare che in un paese con un terzo degli abitanti sotto la soglia di povertà, semplici cittadini parlino di “noi al potere” mentre parteggiano per l’uno o per l’altro degli avversari politici. Quando mai quel “potere” è effettivamente stato nelle loro mani? E perché la scelta deve sempre essere fatta tra un “kukuyu”, un “luo”, un “kalenjin” o un “Kamba”, cioè tra le tribù e non tra quei candidati che presentino credenziali e progetti di governo condivisibili? Ma la domanda è puramente retorica: questa è la democrazia intesa all’africana.
Franco Nofori
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