Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 10 luglio 2017
Salta (in) lungo, ma vuol volare molto in alto l’atletica (sud) africana.
Alla 16° edizione dei Mondiali di Atletica leggera in svolgimento a Londra dal 4 al 13 agosto si susseguono prestazioni che vanno al di là del classico predominio degli atleti africani nelle altrettanto classiche specialità.
Sorvoliamo sulla scontata di vittoria, l’altro ieri sera 8 agosto, di Wayde Van Niekerk, venticinquenne di Bloemfontein, sui 400 metri: una gara senza storia tanto è stato il dislivello fra lui e il secondo (Steven Gardiner delle Bahamas) e il terzo (Abdalelah Haroun, del Qatar).
Trascuriamo per un attimo il clamoroso trio che ha dominato , domenica 6 agosto, la maratona maschile: primo, Geoffrey Kipkorir Kirui, del Kenya; secondo Tamirat Tola, 26 anni il prossimo 11 agosto, Etiopia; terzo, Alphonse Felix Simbu, 25 anni, Tanzania.
Facciamo finta di ignorare anche la maratona femminile dove le keniote si sono appuntate “solo” le medaglie d’oro e d’argento, lasciando il bronzo a un’americana. La vincitrice, Rose Chelimo, per la verità, da due anni difende i colori del Bahrain , ma il 12 luglio 1989 è nata a Kapsabet, capoluogo della contea di Nandi, nella Rift Valley. E quella che si è piazzata alle sue spalle la conterranea Edna Ngeringwony Kiplagat, è nata nel 1979 sempre nella Rift Valley (ma a Burnt Forest) ed è stata campionessa mondiale sulla distanza per ben due volte, nel 2011 e nel 2013.
Non stiamo neppure a sottolineare la cavalcata vittoriosa sui 10 mila metri femminili dell’etiope Almaz Ayana, 26 anni , primatista mondiale e campionessa olimpionica a Rio nel 2016. E non tanto perché sui suoi successi alcuni commentatori hanno sollevato dei dubbi. In Etiopia i controlli antidoping sono molto elastici, è stato scritto. Lei però ha replicato che tutto è frutto di durissimi allenamenti.
Volendo si può dare per scontato perfino il sudatissimo primo posto nei 1500 metri femminili di Faith Chepngetich Kypiegon, 23 anni, che, unica fra tutti gli atleti keniani, si è ricordata dell’appuntamento elettorale nel suo Paese: “Spero che la mia vittoria porti i miei connazionali a correre ai seggi. Li ringrazio tutti per avermi incoraggiato prima della gara. Il loro supporto ha fatto la magia di farmi vincere”.
Tralasciamo pure, infine, la straordinaria incoronazione di Mo Farah, suddito di sua Graziosa Maestà Elisabetta II ma non per questo meno somalo (come ha ironizzato Le Point Afrique). A 34 anni, proprio nella serata inaugurale, il 4 agosto, il british-somalo ha conservato il titolo di campione del mondo dei 10 mila metri con il miglior tempo stagionale di 26 minuti, 49 secondi e 51/10. Alle sue spalle, per un soffio, il giovanissimo ugandese (21 anni il 12 settembre) Joshua Cheptegei e il già navigato keniano Paul Kipngetich Tanui, 26 anni. Per Fara Moh si è trattato del terzo alloro mondiale, per Cheptegi la prima prestigiosa medaglia per il suo Paese in un Mondiale.
E per l’Africa l’inizio della solita contabilità di medaglie.
A poco più di metà campionato, infatti, se si guarda il medagliere iridato, balza agli occhi che dietro gli Stati Uniti con 11 medaglie (3 ori, 5 argenti, 3 bronzi) , spiccano il Kenya, con 7 (3 ori, 1 argento, 3 bronzi) e il Sud Africa con 4 (2 ori e 2 bronzi).
Ok, diamo tutto questo per scontato.
Ma che dire dell’ex drogato vero (non dopato) sudafricano Luvo Manyonga, 26 anni, che la sera del 5 agosto è atterrato dopo un volo di 8,48 metri, ha sbaragliato la concorrenza e ha assicurato al suo Paese la prima medaglia d’oro nella storia del salto in lungo? Non solo: il Sud Africa si è portato a casa anche la medaglia di bronzo grazie alla performance di Rushwahl Samali piazzatosi terzo dietro lo statunitense Jarrion Lawson. Si tratta della prima volta che la RSA vince 2 medaglie in una stessa specialità.
Dietro ogni medaglia africana, si sa, c’è una storia a se. Di Mohamed Muktar Jama Farah, prima che diventasse sir per gli inglesi e Farah Mo per il mondo intero, è nota la sua vita travagliata, la sua lunga separazione dalla famiglia d’origine che ha raggiunto in Inghilterra dopo tanti anni per poter stare vicino a un fratello gemello. Si sa pure che l’occhiuta polizia di frontiera degli Stati Uniti lo ha fermato per due volte avendolo scambiato per un terrorista. Forse perché Farah Mo è un musulmano praticante ed è stato inserito nell’elenco dei 500 islamici più influenti del mondo.
Molte biografie hanno un sapore italico. Il maratoneta dorato Geoffrey Kirui è allenato dal torinese Renato Canova. La nuova star dell’atletica successore planetario di Usain Bolt (tale è considerato il sudafricano Wayde Van Niekerke) da anni trascorre 4 mesi a Gemona in Friuli. Probabilmente perché in lui scorre anche del sangue italiano. Nell’albero genealogico della mamma Odessa – ricordava la Fidal nel suo sito qualche anno fa – c’ un nonno che di cognome faceva De Pasquale.
La storia più toccante è però quella del saltatore Luvo Manyonga.
La repubblica sudafricana si è presentata a questo appuntamento londinese con il chiaro obiettivo di entrare nel consesso delle grandi nazioni dell’atletismo. Si considera un Paese maturo sportivamente maturo senza più alcun complesso di inferiorità nei confronti delle altri grandi nazioni. E a suonare la carica è stato proprio il più reietto, con un salto d’oro. Luvo Manyonga è nato nei bassifondi dei sobborghi (Mbkweni) della città di Paarl (Sud africa sudoccidentale): Ha avuto un’infanzia difficilissima, il padre lo ha mollato, è caduto fra le braccia del tik, una metamfetamina che sta mietendo vittime fra le giovani generazioni del continente nero. A causa della dipendenza da questa droga ha perso appuntamenti importanti, allenamenti e gare, è stato sospeso, ha rischiato di perdere la vita, ha chiesto aiuto e ce l’ha fatta. Fino a conquistare la medaglia d’oro nel salto in lungo, la prima per il suo paese. Un salto per la vita e per il futuro senza droga.
Costantino Muscau
muskost@gmail.com