Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 4 agosto 2017
“Se le ONG non firmano difficilmente potranno continuare ad operare”. Con queste lapidarie parole il Ministro degli Interni italiano Marco Minniti ha messo il punto sulla polemica che in questi mesi vortica confusamente sulle nostre teste: permettere o non permettere, e se sì come farlo, alle ONG di continuare con le proprie attività di soccorso ai migranti nel Mare Mediterraneo?
Non si tratta di un tema semplice. Per settimane a Roma è stato costante l’andirivieni dei rappresentanti delle 9 organizzazioni-non-governative operanti nel Mediterraneo, affollatisi attorno al tavolo del dipartimento Affari internazionali del Viminale. Il bersaglio grosso era raggiungere un accordo sul Codice di condotta che le ONG dovranno rispettare nelle operazioni umanitarie in mare: come tutti oramai sappiamo la maggioranza delle organizzazioni ha scelto di non firmare questo documento.
“L’obiettivo principale delle autorità italiane nel salvare i migranti è la protezione della vita umana e dei diritti delle persone nel pieno rispetto delle convenzioni internazionali” si legge nel testo del Viminale, al quale Africa ExPress ha avuto accesso, dove si specifica che ambo le parti “condividono la necessità di prevedere disposizioni specifiche per affrontare la complessità delle operazioni di soccorso”. Una necessità per la quale le diverse organizzazioni umanitarie avevano già trovato soluzione, decidendo in totale autonomia di dotarsi di un Codice di comportamento (qui il testo completo) oltre che stimolando più volte la collaborazione con le istituzioni italiane e comunitarie.
Secondo il testo del Viminale le ONG dovrebbero dare garanzia di: non entrare in acque libiche “salvo situazioni di grave e imminente pericolo […] non ostacolando la ricerca e il salvataggio da parte della Guardia costiera libica”, tenere sempre accesi transponder e GPS – obbligo che nei primi due mesi del 2017 è stato violato anche da circa 3.000 navi commerciali – non rendersi mai visibili per non agevolare la partenza delle imbarcazioni cariche di migranti (cioè non comunicare via radio con i libici, non inviare segnali luminosi come razzi o bengala per indicare la posizione della nave di salvataggio, non “facilitare i contatti” con trafficanti e contrabbandieri). Oltre a questi accorgimenti le ONG firmatarie si sarebbero dovute impegnare a comunicare i dati tecnici della propria flotta e i dettagli sul personale presente a bordo “necessario”, scrive il Viminale, “a garantire il know-how professionale adatto alle attività di salvataggio”. E fin qui, a parte il divieto di accedere in acque libiche, nessuno ha avuto nulla da eccepire.
Altri aspetti, più operativi, hanno inciso non poco nella scelta di molte ONG di non firmare: obbligo di notificare ogni intervento in zona SAR (che significa zona di ricerca e soccorso) al Centro di Coordinamento marittimo e agli stati interessati, impegno a mantenere costantemente informato il Centro di Coordinamento, non trasferire mai i naufraghi su altre navi salvo richieste diverse delle autorità marittime, sbarcare i salvati “in un porto sicuro” dopo ogni operazione di salvataggio (fino a venerdì scorso le ONG effettuavano anche più operazioni, mantenendo a bordo i migranti per qualche giorno prima di trasferirli in porto), cooperare con il Centro di Coordinamento “eseguendone le istruzioni e informandolo in anticipo su ogni iniziativa” e accettare a bordo “su richiesta delle autorità italiane” funzionari di polizia giudiziaria che dovrebbero raccogliere informazioni e prove da girare poi alle procure che indagano sul traffico di esseri umani. Il tutto “senza il pregiudizio dell’attività umanitaria in corso”.
Il governo italiano e le autorità marittime stanno chiedendo alle ONG di mettere da parte le proprie attività umanitarie e farsi carico di ciò che i governi non vogliono o non riescono a fare, ovvero tutte le attività securitarie del caso, che nelle intenzioni del Viminale sono prioritarie su quelle umanitarie. Si teorizza infatti l’istituzione di vere e proprie questure sull’acqua che permettano alla polizia giudiziaria di effettuare “indagini preliminari” su indicazione dell’Autorità giudiziaria. I governi chiedono alle ONG di sostituirsi a loro sequestrando barche e motori agli scafisti e comunicando tali sequestri al Centro di Controllo di Triton, attività che in origine sarebbe dovuta essere esclusiva della cooperazione tra l’Unione Europea e le diverse autorità nazionali, non certo dalle ONG. Il Codice di comportamento impone l’ovvio: appellandosi al principio di trasparenza, spesso violato dalle stesse autorità nazionali italiane, si chiede di “dichiarare le fonti di finanziamento delle loro attività” che sono già tutte pubbliche e che è possibile verificare grazie ai bilanci che le varie organizzazioni rendono pubblici – nel pieno rispetto della legge tra l’altro.
Le ragioni per cui la maggior parte delle ONG ha deciso di non firmare questo accordo con il governo italiano sono state elencate puntualmente dal Direttore Generale di MSF Gabriele Eminente: fino ad oggi le ONG hanno eseguito delle attività non solo lecite ma anche colmanti quel vuoto lasciato dall’inazione dei governi, sia in mare che in Libia. Medici Senza Frontiere ad esempio, che non ha firmato il Codice di comportamento, da mesi ha schierato personale medico e infermieristico nei centri di detenzione libici sotto il controllo delle milizie e dei trafficanti di esseri umani, obiettivo raggiunto dopo un lunghe trattative. Questo permette alla ONG di fornire assistenza medica in luoghi dove l’unica alternativa alla sofferenza è la morte, garantendo così un presidio sanitario in territorio libico. In questo senso MSF fa ciò che dovrebbero fare i governi europei: aiutare le persone a fuggire dalla Libia garantendo ai migranti un minimo standard medico-sanitario.
Il testo del Viminale ha mostrato alcune lacune e criticità già dal primo giorno di applicazione: relativamente la parte che vieta il trasbordo dei migranti in mare da una nave umanitaria all’altra, che ha senso solo nell’ottica di contrasto all’immigrazione clandestina (un tema che alle ONG non dovrebbe proprio interessare), si legge su laRepubblica del 2 agosto del “paradosso della nave Aquarius”, nave della ONG Sos Mediterranée-MSF fuori dal sistema SAR ma utilizzata recentemente dalle autorità marittime italiane proprio per questo tipo di operazioni: con l’entrata in vigore del Codice la centrale operativa della Guardia Costiera italiana ha ordinato alla nave Aquarius di recuperare i migranti salvati da una nave mercantile per trasferirli sulla nave Open Arms della ONG spagnola ProactivaOpenArms, un’operazione che in teoria il Codice di comportamento – che gli spagnoli hanno sottoscritto – proibisce. A rendere ancora più paradossale questo trasbordo c’è il fatto che una terza nave, la Vos Hestia di Save The Children (anch’essa in regola con il nuovo Codice), è stata fatta intervenire il 1 agosto per prendere a bordo otto salme trasferite precedentemente dalla Aquarius sulla Open Arms, e trasferirle in porto. Una cosa che somiglia più a un macabro gioco delle tre carte, tra l’altro complesso e dispersivo di tempo, forze e denaro, che non a un’operazione di salvataggio coordinata.
Lo Stato italiano cerca in ogni modo di responsabilizzare la Guardia Costiera libica, che la nostra Marina ha formato, armato, foraggiato e arruolato, ma ufficialmente nessuno ha mai voluto puntare il dito contro le attività illegali dei guardacoste libici: eppure i rapporti ufficiali, gli articoli di giornale, le inchieste sulla presenza della Guardia Costiera libica durante i naufragi sono all’ordine del giorno. La procura di Trapani ha sequestrato nel porto di Lampedusa la nave Iuventa, la ONG proprietaria è la tedesca Jugend Rettet, perché accusata di contatti con i trafficanti e quindi di aver favorito i traffici, ma negli atti dell’indagine ci sono alcuni elementi ancora inesplorati: 6:15 del mattino del 18 giugno 2017, a circa 15 miglia da Zwara si trovano tre barconi di legno carichi di disperati, un barchino con i trafficanti che li traina, una motovedetta della Guardia Costiera libica, uno di quei modelli forniti dal governo italiano a quello di Tripoli, e le navi Iuventa e Vos Hestia.
Al di là del comportamento dell’equipaggio della Iuventa, sul quale c’è un’indagine in corso da parte della magistratura italiana stigmatizzata come “reato d’altruismo” dal senatore PD Luigi Manconi, sono interessanti alcuni particolari: la Guardia Costiera libica, assicuratasi a breve distanza che le tre imbarcazioni cariche di migranti siano state prese in carico dall’equipaggio della nave ONG, lascia la zona in compagnia dei trafficanti. Sono queste le istituzioni libiche con le quali si cerca collaborazione?
Andrea Spinelli Barrile
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