Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
24 luglio 2017
Il 25 luglio a Parigi il neo presidente francese Emmanuel Macron ha chiamato a consulto il premier libico del governo di unità nazionale di Tripoli, Fayez al Serraj, e il suo acerrimo nemico e capo del governo scissionista di Tobruk, il comandante Khalifa Haftar. L’iniziativa dell’Eliseo mira esplicitamente a scalzare l’Italia nel ruolo di primo interlocutore della Libia post Gheddafi, per la stabilizzazione dell’ex colonia, ed è da inserire tra le mosse del nuovo asse russo-franco-americano che si va delineando. Anche con un ritorno in scena degli USA su posizioni cambiate da quelle dell’Amministrazione Obama.
Da defilati in sostegno agli islamisti di Misurata alleati di Serraj, gli Stati Uniti guidati da Donad Trump cercano adesso sulla falsariga della Russia un accordo tra il governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU e i laici di Tobruk di Haftar: il generalissimo ex gheddafiano (a lungo esule negli USA protetto dalla CIA) è stato prima rifornito di armi e finanziamenti dall’Egitto e dagli Emirati Arabi, poi accolto al Cremlino e aiutato anche dai militari francesi, infine a luglio ha incontrato l’ambasciatore americano in Giordania.
In questo quadro di rilevante mutazione geopolitica degli attori stranieri in Libia, l’Italia resta ancorata al piano del ministro dell’Interno Marco Minniti: il 13 luglio scorso a Tripoli, a proporre al governo Serraj e a 13 tra sindaci della Tripolitania e del Fezzan (parte della Libia meridionale) il programma di aiuti economici dell’Italia e dell’UE – 200 milioni di euro di un fondo nazionale per l’Africa e altri 200 milioni da Bruxelles agli Stati di origine e transito dei migranti – per canalizzare i flussi verso il Mediterraneo.
I confini libici del Fezzan con Algeria, Niger e Ciad sono, dopo le coste, il secondo fronte del piano italiano, nel ragionamento sensato di controllare a monte le rotte dall’Africa centrale e sub-sahariana. Sulla carta, Minniti punta a creare alternative economiche e lavorative al traffico di merci ed esseri umani nella regione, anche addestrando guardie di confine tra i miliziani tuareg e dell’etnia toubou (i neri di Libia). Un azzardo in realtà estremamente scivoloso, considerato che il contrabbando e la tratta dei migranti sono da anni le uniche attività commerciali dei Comuni libici meridionali in questione.
Amministratori e ras locali partecipano non di rado ai lucrosi business, in mano a reti di criminali e predoni del deserto, spesso radicalizzati jihadisti della costellazione dei gruppi di Al Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI) del superricercato terrorista Moktar Belmoktar, più volte dato per morto e mai ritrovato: banditi che attraversano indisturbati le dune di un Sahara mai del tutto conosciuto ed esplorato neanche dalle autorità del regime di Gheddafi. Il raggio d’azione dei trafficanti spazia dall’entroterra dell’Algeria, alla Libia del Fezzan e della Cirenaica meridionale, ai confinanti Niger, Ciad e Sudan. Lungo una frontiera ineffabile, fisicamente tracciata solo sulle cartine geografiche dei colonialisti occidentali.
In più, dalla caduta di Gheddafi nel 2011 nella regione del Fezzan si combatte una guerra fratricida tra diverse fazioni di tuareg, toubou, berberi e tribù di arabi, ad alleanze variabili a seconda della convenienza e delle parentele tra loro intrecciate (tuareg e berberi divisi tra islamisti e laici, toubou in maggioranza con Haftar). Poco narrato dalle cronache è poi il flusso di mercenari africani di Stati subsahariani limitrofi dal sud della Libia, tornato intenso come tra gli anni ’70 e ’80 della guerra con il Ciad, stavolta richiamati soprattutto dal generale di Tobruk. Ma neanche Haftar, che nel Fezzan e nella Cirenaica meridionale ha piazzato alcuni sindaci suoi luogotenenti, è mai stato in grado di controllare a sufficienza il Sahara.
Non ultimo, dalla disfatta dell’ISIS – in Libia e non solo – il sud della Libia è diventato rifugio dei fuggitivi del sedicente Califfato: dall’ex roccaforte di Sirte sono alcune centinaia, non le migliaia paventate come spauracchio soprattutto grazie ai numeri ingigantiti dal generale Haftar per accreditarsi come paladino anti jihadista agli occhi degli occidentali. Ma gli stessi analisti della Nato prevedono lo Stato fallito della Libia, e più che mai le valli e montagne del Fezzan impraticabili come in Afghanistan e in Yemen, come un nascondiglio ideale per i combattenti stranieri dell’ISIS e di gruppi di Al Qaeda. Di ritorno anche dalle guerre in Siria e in Iraq.
Da Bani Walid i miliziani dell’ISIS sconfitti a Sirte si sono, secondo le ultime notizie in arrivo dalla Libia, ritirati nella valle Zamzam, a circa 50 chilometri da Misurata, spargendosi da lì nei territori ancora più a sud attorno all’oasi di Sabha: capitale del Fezzan e secondo storico snodo della tratta di migranti africani verso il Mediterraneo. Il primo è Kufra, nel sud-est della Libia, dove pure opererebbero cellule dell’ISIS e di Al Qaeda. Forte quest’ultima soprattutto a Ubari: un’oasi a sud-ovest di Sebha, da decenni in mano alla rete di contrabbandieri jihadisti dell’AQMI.
Pochi mesi fa si è disciolta anche la formazione di Ansar al Sharia libica: la maggiore rete di Al Qaeda nel Paese, influente a Derna, Bengasi e Sabratha e con un’ala radicale affiliata all’ISIS. Anche alcuni dei loro estremisti potrebbero essere riparati e riparare dalla costa nel Fezzan. Del trend nel sud della Libia come nuovo santuario di estremisti islamici dovrebbero premurarsi l’Italia e gli altri governi occidentali, e certamente lo faranno. All’opinione pubblica però arriva notizia solo dei milioni di euro portati in dote dall’Italia agli amministratori di territori così compromessi.
Nei porti di Zuara e Sabratha, principali attracchi dei barconi illegali con i migranti verso Lampedusa, l’offerta di Minniti può essere utile: nelle cittadine a ovest di Tripoli esistono da anni collusioni anche gravi tra reti di trafficanti (libici e di altri Stati africani) e politici e imprenditori locali, ma le loro economie non vivono esclusivamente di ciò, nel nord della Libia l’indotto del business dei migranti è in espansione a causa della grave crisi finanziaria e di liquidità, in atto dal 2013. In particolare a Zuara esiste una società civile che manifesta contro le violenze – anche della guardia costiera libica attrezzata e formata dall’Italia, e indagata dal Tribunale penale internazionale dell’Aja per possibili “crimini contro l’umanità” – sui migranti: nei Comuni costieri la situazione può essere in parte sanata. Ma nel Fezzan l’UE capitanata dall’Italia rischia, oltre che di regalare milioni di euro a Stati africani corrotti (come già ai regimi in Sudan, Eritrea ed Egitto) senza imporre loro vincoli effettivi al rispetto dei diritti umani, di finanziare platealmente Al Qaeda e ISIS.
Barbara Ciolli
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