Franco Nofori
Mombasa, 15 luglio 2017
Accanto agli hotel a 5 stelle, nell’avanzata tecnologia satellitare, nel mondo del WiFi e del lusso sfrenato, sopravvive un’Africa segreta che, pur paludandosi dei modelli importati dagli afroamericani e pur avendo apparentemente abbracciato religioni monoteiste, non rinuncia alle sue raccapriccianti ritualità tribali, le stesse che hanno caratterizzato la sua esistenza precoloniale.
In Kenya, in particolare della regione costiera, quella popolata dall’etnia mijikenda che, più di ogni altra presente nel paese, vive in quotidiano contatto con la civiltà bianca portata dai turisti che popolano le sue immacolate spiagge coralline, sopravvivono ancora la pratica dei sacrifici umani per propiziarsi la benevolenza delle divinità.
Chi ha letto il romanzo di Thomas Tryon “La Festa del raccolto” pubblicato nel 1973 e ambientato nell’America contemporanea, sarà rimasto inorridito leggendo la tenebrosa narrazione di una remota comunità rurale che ricorre ai sacrifici umani per propiziare un buon raccolto. Un libro ben scritto ed accattivante, ma certamente caratterizzato da una fervida fantasia noir. Ebbene, in alcune zone dell’Africa odierna, questa fantasia si concretizza in raggelante realtà.
La fascia costiera del Kenya è caratterizzata da un massiccio substrato di compatte formazioni coralline profonde decine di metri che rendono quasi impossibili le normali attività agricole. Uno dei pochi semi che attecchiscono, non necessitando di molta terra, è quello del mais che, tra l’altro rappresenta anche la principale fonte dell’alimentazione keniana.
A sostegno di questa coltura si sono formate, all’interno dell’etnia mijikenda, varie corporazioni tribali, condotte dagli stregoni dei rispettivi villaggi, che si sono dati il nome di Mwua. I membri di questi clan si riuniscono subito dopo la semina e a ciascuno di loro, a rotazione, tocca assumere l’incarico di dar vita al sacrificio umano, volto a compiacere le oscure divinità che dovranno assicurare un buon raccolto.
Non sarà l’incaricato ad offrire la propria vita a favore del bene comune, ma egli dovrà scegliere nell’ambito della propria famiglia la vittima sacrificale da destinare allo scopo e non potrà trattarsi di un parente lontano dagli affetti dell’incaricato. Infatti, perché il sacrificio sia più gradito alle crudeli divinità in questione e le induca a soddisfare le aspettative della tribù che le venera, dovrà trattarsi di una persona molto vicina all’interessato: una moglie, un figlio, un fratello, un genitore.
Charo è un giriama cinquantenne. La sua tribù fa parte della vasta etnia mijikenda che si compone di nove sottotribù. Tre anni fa, racconta, aveva scelto ed “acquistato”, com’è costume in Kenya, una giovane moglie pagandola con una mucca e sei capre. Si chiamava Pendo. Era una ragazza gentile e servizievole. Prima che il matrimonio fosse formalizzato, non presso le autorità civili preposte, ma di fronte agli anziani del villaggio, come più frequentemente avviene nelle comunità rurali, Pendo scomparve e qualche giorno dopo alcune parti del suo corpo furono ritrovate in un insenatura rocciosa della costa.
Charo non è l’unica fonte da cui ho appreso la sopravvivenza di queste mostruose pratiche tribali, ma è stato quello più generoso nelle informazioni. “Mio suocero – riferisce – era membro di un Mwua ed era arrivato il suo turno di procedere all’obbligo sacrificale. Lui, oltre alla moglie, aveva altri tre figli maschi ed una femmina già maritata. Quindi, approfittando del fatto che io, all’oscuro della situazione, non avevo ancora celebrato il matrimonio, offrì Pendo come vittima sacrificale. Lei era già sostanzialmente uscita dalla famiglia e perciò colse l’occasione per non privarsi di altri componenti”.
Dopo quell’evento, Charo non si è più risposato, ma non è detto che non lo faccia se si presenterà l’occasione. Vive catturando i pesci che restano imprigionati nelle pozze rocciose quando arriva la bassa marea ed io sono uno dei suoi clienti. Malgrado l’orribile esperienza che ha vissuto, appare sereno. La vita e la morte, in Africa, qualunque ne sia la causa, sono considerati eventi ineluttabili nelle mani di registi inappellabili e non ha quindi senso coltivare il ricordo di una di una perdita nel perpetuo dolore.
Ho fatto fatica a farmi raccontare da lui come si procede al sacrificio, ma pur se con estrema riluttanza mi ha infine rivelato che la vittima viene di norma avvelenata a sua insaputa e varie parti del corpo vengono poi consumate dagli appartenenti al Mwua nel corso di un rito tribale.
Soffocando il raccapriccio per quell’incredibile racconto, gli ho chiesto se per caso lui faceva parte di un Mwua. Prima ha scosso la testa mentre agganciava il pesce che avevo comprato al bilancino, poi quando ho ripetuto la domanda ha scosso nuovamente la testa ed ha sorriso senza rispondere.
Franco Nofori
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