Speciale per Africa Express
Andrea Spinelli Barrile
Firenze/Parigi, 25 giugno 2017
Teodoro Nguema Obiang Mangue detto Teodorin, vicepresidente della Guinea Equatoriale e tra i criminali corrotti e torturatori più famosi di tutta l’Africa – e non solo – ha passato un pessimo 48esimo compleanno: nonostante i suoi avvocati abbiano fatto letteralmente di tutto per evitargli uno storico processo per corruzione e riciclaggio, il figlio ed erede del presidente Obiang, leader più longevo di tutto il continente africano, è oggi alle corde della giustizia francese e sembra difficile possa uscire dall’angolo.
Lunedì 19 giugno 2017 è iniziato a Parigi quello che i media francesi hanno definito “il processo del secolo” e che invece i media italiani ignorano come si farebbe con un qualsiasi caso di cronaca: è molto di più. Si tratta del primo maxi-processo per riciclaggio, appropriazione indebita, distrazione di fondi pubblici e corruzione della storia della Francia e dell’Unione Europea. Un processo che vede imputato un vice-capo di Stato accusato da centinaia di oppositori politici e cittadini equatoguineani della diaspora – la causa è nata da un’azione della società civile grazie all’interessamento della sezione francese di Trasparency International – non solo di aver stornato nei suoi conti correnti personali, o a lui riconducibili, centinaia di milioni di euro di fondi pubblici dello stato guineano ma di aver perpetrato comportamenti criminali e riprovevoli per raggiungere questo scopo.
Ci sono voluti ben 10 anni per arrivare a questo processo e mettere Teodorin Nguema con le spalle al muro: accusato da anni di usare i beni del suo paese come se fossero proprietà personali Nguema ha sperperato montagne incalcolabili di denaro. La giustizia francese ha sequestrato decine di automobili sportive e di lusso, uno yacht di 76 metri, un intero palazzo del XVI arrondissement di Parigi – 101 stanze extralusso a uno degli indirizzi più prestigiosi della città, avenue Foch – e conti correnti da capogiro, mettendo a nudo uno stile di vita principesco per un politico che ufficialmente guadagna quanto un impiegato statale di medio livello.
Regali e shopping faraonici, prostitute da mille e una notte, vizi e stravizi e una ramificazione vastissima del proprio potere economico, Nguema non è nuovo a questo tipo di accuse: già nel 2014 patteggiò con il Dipartimento di Giustizia americano una multa da 34 milioni di dollari, promettendo agli Stati Uniti di vendere la propria villa di Malibù e tutti i beni acquistati con denaro riciclato negli States, centinaia di milioni di dollari che la giustizia a stelle e strisce contestò al rampollo di casa Obiang.
Oltre alla villa di Malibù, che è ancora sul mercato, gli americani cercarono di sequestrare a Nguema auto di lusso, tra cui due Bugatti Veiron da 1,5 milioni di dollari ciascuna, un jet privato e una collezione di memorabilia di Michael Jackson, di cui Nguema è un fan e per il cui acquisto ha utilizzato anche denaro proveniente dalle casse di un’azienda italo-guineana di cui era socio, la Eloba Construction SA. La storia di Eloba è anche la storia dell’imprenditore italiano Roberto Berardi, che scoperta la truffa fatta a sue spese dal “rispettabile” socio guineano ha denunciato tutto al Dipartimento di Giustizia americano, finendo in carcere a Bata per oltre due anni e mezzo per vendetta di Nguema. Nel compound penale militare di Bata Central, Guinea Equatoriale, Berardi è stato torturato, affamato e ridotto quasi in punto di morte per ordine di Nguema, riuscendo a cavarsela solo per resilienza e combattendo come un leone dentro la cella.
Rientrato in Italia Berardi ha giurato all’ex-socio che gliel’avrebbe fatta pagare, dopo averlo scritto per mesi sulle mura della fetida cella africana: ha scritto un libro sulla sua vicenda e denunciato alla stampa occidentale la spietatezza efferata e l’avidità della famiglia Obiang.
“Sono dannosi pel loro svergognato brigantaggio. Non contenti di divorare quanto si mangia, derubano ancora cose che non si mangiano nelle case e nei cortili, nelle tende e nelle stanze, nelle stalle e nelle cucine. Portan via quanto loro piace, e la loro passione per rubare è forse pari alla loro voracità. Nel pollaio fanno la parte della nostra volpe: uccidono colla crudeltà della martora e derubano se non coll’astuzia, almeno colla temerità della volpe”. Con queste parole lo scrittore e biologo tedesco Alfred Edmund Brehm descriveva, a fine Ottocento, lo sciacallo nel primo volume del suo Vita Degli Animali.
Il patteggiamento con gli Stati Uniti non è mai stato onorato da Nguema, che ha fatto letteralmente sparire nel nulla auto e beni di lusso (molte di queste sono state successivamente sequestrate dalla magistratura francese nel garage del palazzo di avenue Foch) e oggi il Dipartimento di Giustizia USA sembra essere intenzionato a riaprire il caso. Un’altra indagine per riciclaggio di denaro è stata aperta in Svizzera nel novembre scorso anche a carico della madre di Teodorin, la prima dama Constancia Mangue de Obiang, e la magistratura elvetica ha bloccato un aereo di Stato del governo di Malabo, oltre a 11 auto ancora sotto sequestro nel deposito giudiziario dell’aeroporto di Ginevra.
Un’altra indagine è aperta in Spagna, dove due teste di ferro della famiglia Obiang sono finite alla sbarra per complicità in riciclaggio e in Brasile lo scandalo Petrobras ha visto emergere più volte il nome di Nguema e del padre Teodoro, che ama così tanto il Brasile da aver donato 3 milioni di euro ad una scuola di samba nel 2015, la stessa che vinse il Carnevale di Rio di quell’anno.
Nguema Obiang non può più sottrarsi alla giustizia francese. I suoi avvocati hanno provato ogni possibile strategia: si sono appellati all’immunità diplomatica declinandola come impunità e vedendosi rigettare l’istanza dalla Corte di Parigi, hanno cercato di screditare Trasparency International e Open Society Foundation con campagne stampa finite male, hanno coperto arrestati e torture di decine di oppositori nel Paese affinché facessero da esempio ai compatrioti della diaspora. La scorsa settimana, a processo iniziato, hanno accusato la Corte parigina di razzismo sostenendo di voler processare Nguema a tutti i costi “perché nero”.
Starnazzi di una dittatura oramai sul viale del tramonto: nel Paese la situazione economica è completamente allo sbando, il crollo del prezzo del greggio sui mercati (la Guinea Equatoriale è il terzo estrattore di petrolio di tutta l’Africa ma manca completamente di infrastrutture per la raffinazione) ha prodotto un effetto domino simile a quello che ha messo in ginocchio il Venezuela chavista e la famiglia Obiang si trova isolata sul piano internazionale.
Dal 2007, da quando cioè Trasparency International France lavorando con la ong Sherpa ha presentato una denuncia penale contro tre capi di Stato africani (Denis Sassou Nguesso, Omar Bongo e Teodoro Obiang Nguema Mbasogo) dando il via al processo “Bien Mal Acquis”, la spirale verso il basso è stata rapida e senza fine per la famiglia Obiang e per il rampollo Teodorin, erede al “trono” del padre. Dopo una lunga battaglia legale portata avanti con serietà e testardaggine da William Bourdon, avvocato, Trasparency International è stata riconosciuta parte civile nel processo, come sarebbe avvenuto in un sistema di common law: la denuncia della ong è stata ritenuta ammissibile nel 2010, il mandato d’arresto contro Nguema è stato emesso nel 2012 e il rinvio a giudizio è stato firmato solo nel 2016, motivo per cui Nguema non è stato presente né mai lo sarà al processo che lo vede imputato. Entro il 6 luglio la Corte parigina si esprimerà sul caso con una sentenza che, con ogni probabilità, farà scuola e avrà ripercussioni molto oltre i confini francesi.
Questo processo a Nguema ha una portata storica e già il fatto che si possa celebrare rappresenta una vittoria importante per la battaglia globale contro la corruzione: mai prima d’ora un funzionario di governo ha affrontato procedimenti per corruzione così importanti in un paese estero e secondo molti la sentenza farà scuola in diversi sistemi giudiziari europei e non solo.
La corruzione costa agli stati africani, ed alle popolazioni, miliardi di euro ogni anno: paralizza lo stato di diritto e incoraggia la violazione dei diritti umani, falsa i parametri economici e affama milioni di persone ogni giorno, dilaga come un virus in tutto il mondo grazie al lavoro degli intermediari, le banche, gli studi legali e le società immobiliari che si utilizzano per le operazioni di riciclaggio.
In Italia l’associazione Riparte Il Futuro, che è una costola di Trasparency International, cerca da anni di fare pressioni sul legislatore affinché si cominci ad affrontare il problema della corruzione con strumenti moderni, gli stessi che in Francia hanno permesso l’apertura di questo storico processo. Ne gioverebbero tutti, dallo stato di diritto ai singoli cittadini italiani come Roberto Berardi, che dopo aver presentato 3 denunce contro il suo socio una volta rientrato in (poca) carne e (molte) ossa nel suo paese ancora attende, dal 2015, di essere convocato dalla Procura di Roma e da quella di Latina.
Andrea Spinelli Barrile
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