Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
19 giugno 2017
La prima ripercussione in Africa della grave crisi tra il Qatar e la cordata guidata dall’Arabia Saudita è stato il ritiro del contingente del piccolo emirato dai territori del Gibuti contesi al confine con l’Eritrea: entrambi gli Stati hanno scaricato Doha, schierandosi con Riad e il Qatar di tutta risposta ha tolto il suo presidio di peacekeeping da Gibuti che denuncia la rioccupazione dell’area da parte di Asmara. La crisi locale aggiunge instabilità al corridoio strategico tra il Corno d’Africa e la penisola araba, già minato dalle conseguenze della guerra civile in Yemen, in corso dal 2015 senza accenni di tregua.
Ma lo scontro tra petromonarchie rivali del Golfo potrebbe avere effetti ancora peggiori sulla Libia: il più turbolento degli Stati nordafricani, di fatto uno Stato fallito dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011. Con l’Egitto, gli Emirati Arabi e infine anche la Russia (nonché un discreto sostegno della Francia che sulla carta dovrebbe stare con il governo di unità nazionale di Tripoli dei negoziati dell’ONU), l’Arabia Saudita finanzia almeno dal 2014 il governo laico di Tobruk, nell’Est della Libia, in mano al generale Khalifa Haftar. Noto per essersi rifiutato di entrare nell’esecutivo di riconciliazione guidato dal premier Fayez al Serraj.
La Turchia e il suo stretto partner del Qatar nelle Primavere arabe sono viceversa i grossi sponsor della potente brigata di Misurata, capofila delle rivolte, e delle milizie islamiste sue alleate: un blocco che, a causa del rifiuto di Haftar di firmare il memorandum delle trattative in Marocco, pur con pericolose scissioni e defezioni continua a tenere in piedi il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e anche dall’UE. Poco più di un mese fa Haftar e al Serraj avevano accettato di incontrarsi ad Abu Dhabi, negli Emirati, dopo oltre un anno di dinieghi: si era frettolosamente prospettata la “svolta” per andare a elezioni libiche finalmente condivise nel 2018.
Invece la crisi del Golfo tra Arabia Saudita e Qatar può facilmente tornare a polarizzare le posizioni del governo della Tripolitania verso quello della Cirenaica. A Misurata le unità speciali degli USA e dei Paesi dell’UE (britannici, italiani, anche francesi) hanno moltiplicato le loro basi e i loro contingenti dal varo, nel 2016, del governo legittimato di al Serraj a Tripoli. Ma la Turchia e il Qatar restano dall’esplosione delle Primavere arabe i principali supporter politici e finanziatori, anche di armamenti, delle milizie libiche nell’orbita della Fratellanza musulmana.
Il canale, navale ma anche aereo da Tripoli e Misurata, soprattutto verso Istanbul e altri scali e porti turchi, è quasi sempre rimasto aperto e resta molto intenso, anche in termini di investimenti per la ricostruzione. Dalle roccaforti nell’Est di Tobruk e Baida, il generale Haftar si è invece unito, con l’Egitto e gli Emirati Arabi, al duro blocco commerciale e delle relazioni diplomatiche dei sauditi verso il Qatar. Tra Il Cairo e Doha le relazioni erano critiche dal golpe nel 2013 del generale (poi presidente) egiziano al Sisi contro il capo di Stato islamista democraticamente eletto Morsi: centinaia di esponenti del movimento della Fratellanza musulmana – dichiarata terrorista da Egitto e Arabia Saudita – si rifugiarono in Qatar. Esplose allora una crisi con i sauditi a inizio 2014, poi rientrata, anche perché gli esuli seguaci di Morsi furono traferiti nella Turchia di Erdogan.
Nella calda estate del 2017 la contrapposizione, anche tra Egitto e Turchia, si ripropone più forte che mai, rischiando di mandare in frantumi anche i piani di ricomposizione sulla Libia, che da sempre risente dei fatti del Cairo. Ankara ha mandato migliaia di truppe in Qatar per dare modo alla piccola monarchia accerchiata degli al Thani di difendersi nel caso di un’aggressione da parte della coalizione saudita, che due anni fa si mosse contro lo Yemen. Haftar e tutta la cordata dei sauditi recriminano al Qatar di “finanziare gruppi terroristici”: un pretesto, oltre che una generalizzazione.
Doha può aver sostenuto gruppi radicali sunniti affiliati ad al Qaeda (come al Nusra in Siria e Ansar al Sharia in Libia), che hanno finito per allearsi con gli islamisti della Fratellanza musulmana. La Turchia è anche fortemente sospettata di aver spalleggiato l’ISIS per interessi territoriali in Siria. Ma non vi sono prove di finanziamenti statali per nessun Paese, e anche se vi fossero il Qatar non l’avrebbe fatto più dell’Arabia saudita, né così a lungo. Da decenni Riad versa fiumi di petrodollari nel promuovere l’Islam radicale wahhabita (dal quale origina al Qaeda, poi ISIS) ovunque. Compresa l’Asia centrale, da dove arrivano migliaia combattenti dell’ISIS in Siria e in Iraq: il sedicente Califfato, non al Nusra, vanta il record di jihadisti stranieri da ogni angolo di mondo.
In Siria l’Arabia Saudita è indicata come sponsor gruppi di jihadisti sunniti come Jaish al Islam, che la Russia neanche voleva come interlocutori ai suoi negoziati sulla Siria in Kazakistan perché “terroristi”. Mentre in Libia l’entità della presenza dell’ISIS propagandata da Haftar e dai sauditi era sproporzionata rispetto alla reale. Quello che davvero infastidisce del Qatar è in primis che da lì si diramino le onde della (boicottata) tivù libera al Jazeera: un unicum nella regione. Non bastasse la monarchia assoluta – ma ribelle – di Doha ha curiosamente scelto di appoggiare nelle Primavere arabe l’Islam politico della Fratellanza musulmana che mira ad abbattere dal basso lo statu quo di tutti i regimi arabi, laici e islamici, compreso quello saudita.
Tanto è indisposta la dinastia degli al Thani alla sudditanza verso i sauditi che, da monarchi wahhabiti conservatori quali figurano, hanno poi preferito stringere un’alleanza politica ed economica con l’Iran sciita. Con Teheran, Doha condivide il maggiore giacimento al mondo di gas naturale del North Dome-South Pars nel Golfo persico, cruciale per le stratosferiche ricchezze dei qatarini: la collaborazione occulta tra i due Stati che fa imbestialire Riad va avanti da qualche anno e sarà una coincidenza ma, diventata palese, l’Iran è stato vittima del primo attentato jihadista nella capitale. Il primo anche a venire indubbiamente rivendicato dall’ISIS.
Un tale stravolgimento di alleanze nel Golfo persico (con l’Iran già presente anche in Yemen, nel Bahrein, a Dubai negli Emirati e nei non ostili Oman e in Kuwait), anziché aiutare a sciogliere i nodi delle Primavere arabe in Medio Oriente e in Nord Africa li esaspera. Lo scontro è difficilmente ricomponibile, a meno che anche stavolta non scenda in campo la Russia che tiene il piede in due staffe. In Egitto e in Libia, supportando al Sisi e Haftar, il leader del Cremlino Putin sta con i sauditi. In Siria, da alleato dell’Iran, con Assad. Con la Turchia di Erdogan è tornato per scopi strategici ad andare d’accordo e non ha mai fatto mistero di voler mediare per stabilizzare la Libia del post Gheddafi. Gli mancava solo la crisi del Qatar.
Barbara Ciolli
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@BarbaraCiolli
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