AFRICA

Samburu, Pokot Masai l’odio tribale miete decine di vittime nel nord del Kenya

Dal Nostro Inviato Speciale
Franco Nofori
Nairobi, 29 maggio 2017

“Mio padre – racconta Letodo, uno scheletrico guerriero pokot, privo del braccio destro – affrontava i nemici con arco e frecce e quando era fortunato, riusciva a portar via ad un Turkana, due o tre mucche. Fino a due mesi fa, con il mio AK47, di mucche me ne portavo a casa anche dieci in un colpo. Il problema è che adesso le armi le hanno anche loro ed ogni volta dobbiamo ingaggiare battaglie che costano molte vite ad entrambi”.

Un ennesima conferma al racconto di Letodo arriva proprio questa mattina: ieri, nel villaggio di Kom, della contea di Isiolo, si è scatenata una feroce battaglia tra tribù rivali che, iniziata alle prime ore del mattino, si è protratta per ben nove ore, lasciando sul campo 10 morti e 8 feriti, ma consentendo agli assalitori di appropriarsi di oltre 900 capi di bestiame.

Un giovane guerriero pokot, scorta la propria mandria all’abbeverata armato di kalashnikov

 

Ispirandosi alle norme del vecchio dominatore britannico, in Kenya l’uso e la detenzione di armi è severamente regolamentata e si può finire in galera anche per il semplice possesso di una pistola ad acqua. Infatti, così come i “bobby” britannici, i loro colleghi keniani, svolgono le proprie funzioni normalmente disarmati.

Ma gli affascinanti contrasti paesaggistici che offre la terra africana, esprimono la stessa peculiarità anche in questo settore e nelle terre dell’estremo nord-ovest è infatti quasi impossibile trovare un villaggio che non si sia dotato di pistole e kalashnikov, così come è molto comune, avventurandosi in quei territori, incontrare un pastore che dirige le proprie mandrie con un mitra a tracolla.

Tutte le zone rurali confinanti con Sudan, Etiopia ed Uganda, rappresentano nei fatti, aree di quasi totale anarchia, dove gli interventi del potere centrale di Nairobi risultano pressoché inesistenti. La strada che da Maralal conduce al lago Turkana, un tempo attirava un intenso traffico turistico. Ormai è diventata impraticabile, non solo per le orrende condizioni della pista sterrata, ma soprattutto per il costante rischio di essere assaliti a colpi di mitraglia.

Maralal, Isiolo, Marsabit, South Horr, sono di incontrastato dominio delle tribù di origine nilotica, in prevalenza, Maasai, Samburu, Turkana e Pokot. Tutte tribù nomadi dedite esclusivamente alla pastorizia e fortemente resistenti a dar vita anche ad un minimo progetto agricolo di sostentamento.

I continui periodi di siccità e la conseguente scarsità dei pascoli, producono frequenti sconfinamenti nei territori delle tribù limitrofe, dando così vita a scontri sanguinari e a reciproci furti di bestiame, poiché in quelle zone, l’abigeato, non si configura in un crimine, ma conferisce grandi onori a chi è riuscito ad attuarlo, dando anche vita a celebrazioni raccapriccianti.

Qualche anno fa, nella remota missione di Morijo, nel cuore delle splendide montagne del Samburuland, attendevo a fianco di padre Aldo Vettori, un attivo sacerdote trevigiano, parroco della missione, l’inizio della messa domenicale. Padre Aldo mi spiegò che la cerimonia era in ritardo indicandomi il villaggio samburu adagiato qualche centinaio di metri più a valle.

“Hanno appena avuto uno scontro con i turkana – chiarì il sacerdote – e ora stanno celebrando la vittoria. Poi saliranno quassù a seguire la funzione”. Alti guerrieri samburu saltellavano a piedi uniti, nei loro tipici passi di danza. Impugnavano lunghe lance in cima alle quali erano appesi degli strani fagotti che ondeggiavano ai loro movimenti.    

“Cosa sono quei fagotti in cima alle lance?”, chiesi. Lui corrugando la fronte, controvoglia rivelò: “Sono i genitali dei nemici uccisi. Li hanno portati al villaggio per dimostrare di aver vinto. I samburu sono circoncisi, ma i turkana no e quel trofeo conferisce un grande onore ai giovani guerrieri”.

Pochi minuti dopo quei sanguinari assassini sarebbero entrati in chiesa per venerare il Dio cristiano portato loro da un prete muzungu (bianco). Quando feci notare a padre Aldo quel paradosso, lui allargò le braccia e rispose con un sorriso: “Le vie del Signore sono infinite e ad ogni passo ne segue un altro. Occorre sempre fidare nella provvidenza.”

Padre Aldo è scomparso da qualche anno, ma la mattanza continua e anzi, si inasprisce sempre di più perché la crescente urbanizzazione riduce costantemente i terreni che potrebbero essere destinati al pascolo. E’ un massacro quotidiano che molto raramente attrae l’interesse dei media e quindi si attua nel silenzio.  

Letodo, senza il braccio destro, non può più impugnare il mitra e confrontarsi con le tribù rivali. Ora lavora come guardino notturno in una delle prestigiose ville di Karen a poca distanza dalla capitale. Appare abbattuto perché non può più fregiarsi del titolo di guerriero, ma a quel moncherino che gli spunta oltre la manica del camiciotto, spetta il merito di avergli probabilmente salvato la vita.

Franco Nofori
franco.kronos1@gmail.com
@FrancoKronos1   

Cornelia Toelgyes

Giornalista, vicedirettore di Africa Express, ha vissuti in diversi Paesi africani tra cui Nigeria, Angola, Etiopia, Kenya. Cresciuta in Svizzera, parla correntemente oltre all'italiano, inglese, francese e tedesco.

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