Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 14 aprile 2017
Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2014 duecentosettantasei studentesse vengono rapite dai miliziani islamici Boko Haram a Chibok, città nel Borno State, nel nord-est della Nigeria. Le ragazze si trovavano in un collegio per sostenere gli esami di fine anno. Il mondo intero si indigna per un attimo e parte una delle più grandi campagne mai lanciate sui social network con l’hashtag #BringBackOurGirls.
Alcune ragazze riescono a scappare quasi subito. Altre sono liberate in seguito. Sta di fatto che di molte di loro non si sa più nulla. Forse alcune sono morte, costrette dai loro aguzzini a farsi saltare per aria, mietendo morte e distruzione nella propria terra contro la loro volontà, dopo aver subito un lungo lavaggio del cervello.
Nel 2014 quasi tutte le scuole nel Borno State vengono chiuse, perché il governo non è in grado di proteggere i giovani dagli attacchi della setta islamica Boko Haram, che oltre ad attaccare interi villaggi, incendiare le povere capanna, sgozzare gli uomini, stuprare e rapire le donne, le ragazze e i bambini, in quel periodo assalgono anche i centri di istruzione. Boko Haram, liberamente tradotto dalla lingua Hausa, significa “L’educazione occidentale è peccato”, dunque i primi luoghi a dover essere distrutti sono ovviamente gli edifici scolastici.
All’epoca Chibok, contava sessantamila abitanti, per lo più cristiani, non era mai stata sfiorata dai terroristi, ecco perché molti genitori avevano mandato le figlie proprio in quella città per studiare e sostenere gli esami finali.
Nell’aprile dello scorso anno Amina Ali Darsha Nkek, una delle studentesse di Chibok, viene riconosciuta da un membro delle milizie civili di autodifesa che in quel momento era in pattugliamento in un villaggio della foresta di Sambisa (vicino al confine con il Camerun) assieme ad un gruppo di soldati. All’epoca del sequestro Amina aveva diciasette anni. Al momento del ritrovamento ne conta diciannove e porta una bambino legato sulla schiena. Racconta di essersi dovuta sposare con un membro dei Boko Haram, come praticamente tutte le sue compagne. Durante vari interrogatori svela poi che sei delle sue amiche sono morte.
Lo scorso ottobre, ventuno ragazze vengono liberate grazie alla mediazione di funzionari del governo svizzero con esponenti dei Boko Haram.
In questi anni si sono intrecciate notizie e voci incontrollate sul destino di queste giovani: c’è chi le dava arruolate, chi con un lavaggio del cervello trasformate in bombe suicide, chi portate fuori dal Paese e chi vendute nei mercati dei villaggi sahariani. Non si sa quante studentesse siano ancora in mano ai terroristi dentro o fuori la foresta di Sambisa.
La Nigeria dal momento del rapimento ha ricevuto dalla comunità internazionale moltissimi aiuti finalizzati agli sforzi per liberare le giovani e alla lotta contro il terrorismo. All’inizio di marzo il quotidiano inglese Guardian ha rivelato che l’ex colonia britannica aveva rifiutato l’intervento della Royal Air Force, che si era offerta di recuperare le studentesse. Durante una missione denominata “Operation Turus”, il nord della Nigeria era stato oggetto di voli di ricognizione da parte della RAF e poche settimane dopo il rapimento le studentesse erano state localizzate. Uno dei partecipanti a tale missione ha riferito: “Volevamo recuperare le ragazze, ma il governo nigeriano ha declinato la nostra offerta”. E ha precisato: “Anche nei mesi seguenti, abbiamo monitorato la situazione con i nostri aerei e abbiamo potuto accertare che pian piano le ragazze sono state suddivise in gruppi sempre più piccoli”.
L’allora presidente Goodluck Jonathan aveva fatto sapere durante una riunione con Mark Simmons, sottosegretario agli Esteri della Gran Bretagna, che il recupero delle studentesse sequestrate era compito dell’intelligence e dei militari nigeriani. Ovviamente Jonathan non ha rifiutato il sostegno materiale di Londra e di molti altri governi. Anche il suo successore, Muhammad Buhari, non li ha respinti.
Buhari, che ha vinto le elezioni presidenziali nel 2015, aveva annunciato più volte che le ragazze sarebbero state liberate presto. Anzi, a più riprese, ha fatto sapere che la distruzione totale del gruppo terrorista era vicina. Intanto il tempo è passato e dal 2009, anno nel quale sono comparsi per la prima volta i Boko Haram, oltre ventimila persone hanno perso la vita, 2,3 milioni hanno dovuto lasciare le loro radici, i loro villaggi ed ora i più sono senza lavoro, allo stremo. Molti bambini e giovani non possono frequentare le scuole, il servizio sanitario è carente, a volte addirittura inesistente. I giovani sono disoccupati, molte donne sono costrette a prostituirsi pur di portare un pezzo di pane a casa.
Oggi i Boko Haram sono sempre attivi nel nord-est della Nigeria, anche se hanno dovuto cedere molti dei territori conquistati, ma rendono ancora insicure zone molto ampie. Parecchie aree non possono essere raggiunte dalle organizzazioni umanitarie, sono completamente isolate e oltre sette milioni di persone sono a rischio carestia, tra loro 1,3 milioni di bambini.
I sanguinari terroristi hanno esportato morte e terrore anche oltre le frontiere nigeriane: in Camerun, in Ciad e in Niger, e da un paio d’anni si sono spostati anche in Libia. Il capo della setta, Abubakar Shekau, ha giurato fedeltà ad Abu-Bakr al-Baghdadi, il leader dello Stato Islamico nel febbraio 2015. (http://www.africa-express.info/2015/12/02/i-boko-haram-nigeriani-scendono-in-libia-per-dar-manforte-ai-miliziani-dellisis/).
Boko Haram, setta islamica estremista, compare per la prima volta in Nigeria nel 2009, ma anche prima c’erano stati altri fenomeni simili. Negli anni Settata miete successo tra le masse diseredate un predicatore, Mohammed Marwa, un hausa, meglio conosciuto come Maitatsine. Con i suoi sermoni violenti contro lo Stato, corrotto e inefficiente, infiamma la folla.
Originario di Mawra, nel nord-est del Paese, in una regione che un tempo faceva parte del Camerun, sosteneva che chi leggesse un altro libro all’infuori del Corano fosse un pagano. Durante il colonialismo era stato mandato in esilio, ma subito dopo l’indipendenza era rientrato a Kanu. Era contrario alle biciclette, agli orologi, alle automobili e sosteneva che era peccato possedere più denaro del necessario per vivere.
Durante le sue prediche attaccava tutti: autorità civili e islamiche. Erano attratti dalle sue teorie e dalla sua ideologia soprattutto i giovani, diseredati e senza una speranza per il futuro . Man mano che cresceva il numero dei suoi seguaci, aumentavano anche i confronti con la polizia. Agenti e soldati, era il 1980, intervennero per sedare alcune dimostrazioni violente. La repressione costò la vita a cinquemila persone. Fu ucciso anche Maitatsine.
Dopo la sua morte, ci furono altri sporadici tumulti nei primi anni Ottanta. In particolare i militanti di Yan Tatsine nel 1982 insorsero a Bukumkutta, vicino a Maiduguri, e a Kanu, dove molti adepti si erano trasferiti dopo la morte del leader. Intervennero le forze dell’ordine che uccisero più di tremila persone. Allora molti membri sopravvissuti si spostarono a Yola, dove, guidati da Musa Makanik, un discepolo del maestro, nel 1984 organizzarono svariati attacchi violenti.
Negli ultimi scontri ci furono un migliaio di morti e metà dei sessantamila abitanti di Yola persero la loro casa. Makanik scappò prima a Gombe, la sua città natale, dove fino al 1985 si susseguirono sanguinosi attacchi mortali, e poi in Camerun dove rimase per molti anni. Nel 2004 fu arrestato in Nigeria.
Certamente oggi, terzo anniversario dal sequestro delle studentesse di Chibok, l’hashtag ricomparirà per qualche giorno, ma che non sia semplicemente un simbolo. La liberazione delle sfortunate giovani potrebbe significare molto per la Nigeria, i nigeriani tutti: un nuovo inizio, una nuova speranza.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
#BringBackOurGirls
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