Andrea Spinelli Barrile
Roma, 24 gennaio 2017
La scorsa settimana è finito un incubo per il Gambia: dopo una strenua resistenza e una lunga trattativa diplomatica durata giorni, l’ex-Presidente Yahya Jammeh, al potere da 22 anni a Banjul, ha accettato di lasciare il posto al legittimo vincitore delle elezioni, Adama Barrow. Jammeh ha preso un aereo sabato 21 gennaio, con la sua numerosa famiglia e diversi suoi collaboratori, e dopo essersi diretto verso nord ed essere atterrato a Conakry dal suo amico Alpha Condé, uno dei due negoziatori per conto dell’ECOWAS, ha poi scelto la Guinea Equatoriale come suo buen retiro. Un aereo inviato dal Presidente equatoguineano era ad attenderlo già sulla pista.
L’esilio Jammeh lo farà alla corte del suo amico Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, il leader africano più longevo – al potere ininterrottamente dal 1979 – e tra i più spietati: il regime di Malabo ha messo a disposizione dell’ex-capo di stato gambiano una lussuosa villa a Sipopo, sembra di proprietà della prima dama equatoguineana Constancia Mangue de Obiang, dove Jammeh è arrivato con l’intera sua famiglia. A precederlo, ha sostenuto un portavoce del ministero dell’economia del Gambia, 11,4 milioni di dollari di fondi pubblici trafugati nelle settimane precedenti la capitolazione ed esportati all’estero illecitamente. Jammeh è fuggito con la cassa ma non ha dimenticato il tesoro: con il suo aereo infatti a Malabo è atterrato anche un aereo cargo ciadiano contenente beni di lusso e un numero imprecisato di automobili.
Ma come mai Jammeh ha scelto la Guinea Equatoriale come sua residenza per l’esilio?
La domanda sorge perché questa ipotesi non è mai emersa nel corso dei negoziati, nessuno aveva mai menzionato la Guinea Equatoriale come possibile destinazione finale del dittatore gambiano. Ma questo non significa che non sia stata ugualmente discussa: la principale preoccupazione di Jammeh, da qualche tempo a questa parte, è stata quella di preservare la propria incolumità, in particolar modo dalla giustizia internazionale. Per questo motivo poco prima delle elezioni il gambiano aveva promulgato una legge che decretava l’uscita del Gambia dallo Statuto di Roma, quindi dalla Corte Penale Internazionale (CPI), seguendo l’esempio di Burundi e Sud Africa ma con una curiosità in più: il procuratore capo della CPI è Fatou Bensouda, gambiana.
Dopo essere stato sconfitto alle elezioni, avere accettato il risultato salvo ritrattare quanto detto pochi giorni dopo, essersi arroccato nel suo palazzo a Banjul contando i fedelissimi e constatando di essere rimasto solo, Yahya Jammeh ha sentito un brivido lungo la schiena, quello di chi può trovarsi a dover rispondere dei crimini commessi negli ultimi 22 anni. La Guinea Equatoriale garantisce a Jammeh l’immunità: il Paese centroafricano infatti non ha mai sottoscritto lo Statuto di Roma e quindi non ha alcun vincolo né obbligo nei confronti della CPI, cosa che mette al sicuro Jammeh da un eventuale mandato di cattura internazionale contro di lui. Inoltre la soluzione equatoguineana, ha scritto RFI, potrebbe essere gradita anche al nuovo Presidente gambiano Adama Barrow, che in questo modo interpone molti più chilometri tra sé ed il suo predecessore.
Anche la Nigeria si era offerta di ospitare Jammeh, ma l’ex-dittatore non si sarebbe fidato di Muhammadu Buhari: la Nigeria è stato il secondo paese africano dopo il Senegal a mettere a disposizione le proprie truppe all’ECOWAS per fare pressioni su Jammeh e costringerlo ad andarsene e il precedente di Charles Taylor, esiliato nella Nigeria di Obasanjo ma finito ugualmente tra le grinfie della CPI, hanno rappresentato due buoni motivi per declinare l’offerta.
Se fosse andato in Guinea Conakry o in Mauritania infatti, nazioni che si erano offerte di ospitare l’esilio di Jammeh, il rischio di future interferenze sarebbe stato maggiore visto che lo stesso Jammeh ha chiesto di poter continuare a gestire il suo partito politico. Forse, chissà, per presentarsi alle prossime elezioni. In Guinea Equatoriale l’opposizione è insorta: Andrés Esono Ondo, segretario generale della CPDS, ha attaccato il Presidente Obiang, che non ha consultato né il Parlamento né le istituzioni prima di prendere la sua decisione: “Quell’uomo dovrebbe affrontare la giustizia del suo paese. Come possiamo dargli un esilio dorato qui quando ha commesso così tanti crimini a casa sua?”. La domanda di Ondo è in verità una domanda retorica e sottolinea il carattere del regime di Obiang: remissivo ma brutale, il dittatore equatoguineano con l’operazione Jammeh ha portato a casa una vittoria su tutta la linea.
Obiang si è (nuovamente) ingraziato la comunità internazionale, mostrandosi come una pedina fondamentale nello sbloccare la crisi in Gambia, che prometteva davvero malissimo e che invece si è risolta in un successo diplomatico storico per l’Africa. Contemporaneamente manda un chiaro segnale ai propri cittadini: chi comanda è uno e uno soltanto e i suoi amici sono intoccabili come lui.
Jammeh ha accettato l’offerta di Obiang anche in base ad un preciso calcolo politico che sicuramente non è sfuggito al gambiano: l’età di Obiang costringe il Paese a guardarsi attorno alla ricerca di un nuovo leader che, in realtà, è già designato dalla nascita. Teodorin Nguema Obiang Mangue, “figlio di” e attuale vicepresidente alla sbarra in Francia (da contumace) per riciclaggio internazionale, appropriazione indebita, furto e corruzione è il risultato di questo calcolo: Yahya Jammeh è convinto che la dinastia Obiang continuerà e, con essa, sarà garantita anche la sua salvezza.
Andrea Spinelli Barrile
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