Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 20 ottobre 2016
Tra manifestazioni di piazza, tumulti, repressione violenta delle proteste da parte della polizia, critiche delle ambasciate occidentali, violando il patto che prevedeva il ricambio al vertice del Paese dopo i due mandati del presidente Joseph Kabila, le autorità congolesi hanno deciso di rimandare le elezioni, previste per novembre, alla primavera del 2018.
Joseph Kabila, presidente del Congo-Kinshasa, è salito al potere dopo la morte del padre, Laurent-Désiré Kabila, nel 2001. E’ stato rieletto nel 2006 e nel 2011; il suo mandato scade a dicembre di quest’anno. Ma lui ne ha chiesto un altro, il terzo, e la casa è contestata dall’opposizione, perché anticostituzionale.
Lunedì scorso i partecipanti al “dialogo nazionale” della Repubblica Democratica del Congo – boicottato dalla maggior parte dell’opposizione – si sono accordati di posticipare le prossime elezione alla primavera del 2018. Tale accordo è stato approvato dalla Corte Costituzionale congolese.
La crisi nel Congo-K dura dall’ultima rielezione di Kabila nel 2011. Allora il leader fu accusato di scrutini poco trasparenti e di brogli elettorali .
Il ministro degli esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha fortemente criticato il posticipo della tornata elettorale, temendo nuove violenze. “C’è un solo modo per uscire da questa crisi: il presidente deve farsi da parte, non deve ricandidarsi”, ha sottolineato Ayrault e ha aggiunto: “Rimandare le elezioni non è la soluzione del problema, anzi. Potrebbe provocare nuovi scontri nelle piazze e di conseguenza scatteranno repressioni”.
Anche gli altri ministri degli esteri dell’UE non hanno apprezzato il rinvio delle presidenziali nella ex-colonia belga e sono pronti a varare sanzioni economiche contro Kinshasa, se le elezioni non si terranno entro il prossimo anno. “Per ora ci sono consultazioni in corso con il governo americano e l’UE a questo proposito”, ha specificato Ayrault.
Attualmente alla MONUSCO, la Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo, partecipano diciottomila caschi blu. Il comandante, Maman Sambo Sidikou, durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza del 12 ottobre scorso, ha evidenziato che la stabilità del Paese è estremamente fragile, l’attuale crisi potrebbe intensificare violenze ad ampia scala. “Purtroppo non ci sono progressi nei dialoghi tra le parti”, ha aggiunto.
Durante una manifestazione dell’opposizione contro il governo, tra il 19 e il 20 settembre scorso, sarebbero morti quarantanove civili e quattro poliziotti, secondo le stime dell’ONU.
Mercoledì scorso la coalizione dei partiti dell’opposizione ha indetto una nuova protesta, costituta lo scorso giugno da Étienne Tshisekedi, ex primo ministro ai tempi del dittatore Mobutu Sese Seko e leader e presidente del partito “Unione per la democrazia e il progresso sociale” (UDPS).
La contestazione di ieri, In Congo la chiamano “Ville morte”, cioè città morta, uno sciopero generale totale, è trascorsa senza incidenti di riguardo. A Kinshasa un grande mercato, situato nel nord-ovest della capitale e generalmente molto frequentato, era deserto. Pure in molte strade della capitale dove il traffico è sempre congestionato, era fluido. Un centinaio di poliziotti sono stati inviati nelle vicinanze della residenza di Tshisekedi, uno dei maggiori oppositori di Kabila.
Se la parola d’ordine “città morta” ha avuto successo nella capitale, a Lubumbashi, la seconda città del Paese e feudo di Moïse Katumbi,ex-governatore della Provincia del Katanga, ricco uomo d’affari, attualmente in esilio e uno dei maggiori oppositori del presidente, è stata totalmente ignorata.
Il governo è stato categorico: chi non si reca al lavoro sarà sanzionato severamente. Certo, alcuni capi di Stato risolvono i problemi con l’oppressione. La libertà di parola, i diritti civili e umani sono semplicemente un optional.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail
@cotoelgyes
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