Paola Rolletta
Maputo, 15 settembre 2016
Finalmente una buona notizia. O quasi. L’arte africana contemporanea gode di buona salute. Da Settembre 2016 a Febbraio 2017 ci sono otto fiere dedicate all’arte africana, nel mondo.
Si sono appena chiusi i battenti della 9 edizione della Fiera d’Arte di Johannesburg, con 80 mostre divise in sei categorie, con gallerie e organizzazioni provenienti da 17 paesi africani, Europa e Stati Uniti. A breve apriranno i battenti, a Londra, della quarta edizione della fiera dell’arte africana contemporanea, organizzata da 1:5,4, l’iniziativa creata da Touria El Glaoui nel 2013.
Tra le piattaforme internazionali che dedicano all’Africa spazi ad hoc, come la nuova Fiera di Arte Africana di Parigi, ci sono gli incontri continentali di alto livello – che aiutano a sconquassare il ghetto dove finora è stata relegata l’arte africana – come la fiera d’arte di Kampala, di Dakar, di Addis Ababa, di Lagos, di Accra, di Cape Town…
Dal 2004, quando venne organizzata Africa Remix per supplire alla necessità di presentare in una grande esposizione la ricchezza dell’arte contemporanea africana e degli artisti della sua diaspora, l’arte contemporanea africana circola nelle grandi piattaforme e gli artisti (perlomeno alcuni!) finalmente sono considerati per la loro qualità e non per la loro appartenenza al continente. È il riconoscimento che c’è valore e questo si riflette nei prezzi di alcune case d’asta importanti. Nel 2006 un’opera di Gerard Sekoto venne battuta a 174.581 USD. Negli Stati Uniti, per esempio, l’opera di El Anatsui, Paths to the Okro Farm (2006) è stata venduta per 1.5 milioni di USD nel 2014.
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Sono quasi vent’anni che l’artista mozambicano Gonçalo Mabunda (Maputo, 1975) lavora residui bellici e li trasforma in arte. Con la fiamma ossidrica, proiettili, kalashnikov, pistole prendono nuova forma. Fuse, saldate, le armi diventano oggetti disarmanti.
Ora sono anche le maschere di metalli riciclati, che rimettono al potere di trasformazione dell’arte nella precaria esistenza dell’umanità. Un messaggio importante quando in Mozambico la guerra che sembrava finita per sempre, continua sordida. Quella con le armi e quella con la finanza.
Come direbbe il filosofo Achille Mbembe, “coscienti della nostra precarietà come specie di fronte alle minacce, saremo capaci di superare la possibilità della estinzione totale dell’umanità aprendoci a questa nuova epoca, l’Età dell’Antropocene”.
P. R.
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Gallerie, aste, piattaforme artistiche, festival e fiere s’interessano all’arte africana contemporanea. Non già solo più all’arte di aereoporto[1], quella variante artigianale e locale dell’arte contemporanea cosmopolita che circola di fiera in fiera, in aereo naturalmente: produzioni un po’ così, fatte ad “arte” per differenti pubblici stranieri. In giro ci sono tante piattaforme che ancora definiscono geograficamente, quasi a creare un “a parte”, rafforzando lo status di “esotico” che nel XXI secolo è davvero provinciale, con aggiunta una dose di paternalismo che avvelena qualsiasi cosa.
Come esempio, è interessante notare come in Portogallo, i critici d’arte non abbiano mai organizzato una mostra della collezione africana di Jean Pigozzi, considerato uno squalo bianco ecc, e apprezzino, senza critica alcuna, la perfomance di Sindika Dokolo, il milionario congolese marito di Isabel dos Santos, figlia plurimilionaria del presidente angolano, che dello squalo ha tutte le caratteristiche, come scrive il critico d’arte portoghese, Alexandre Pomar.
Ma qualcosa sta cambiando. Quello che sta accadendo è un’attenzione critica, e economica, per l’arte prodotta da artisti africani nel continente e/o nella diaspora, anche se ancora l’Africa viene vista come “una identità singolare”, una single story, insomma. C’è chi dice che è il prezzo da pagare, “un male necessario” perché prima viene la visibilità, un “punto vendita”, poi, eventualmente gli artisti saranno inclusi in mostre che non hanno niente a che vedere con l’Africa.
Uno dei fattori è certamente la crescita economica, lo sviluppo infrastrutturale, l’aumento dell’investimento straniero e soprattutto il crescente numero di milionari nel continente, la diffusione – anche se ancora piuttosto ridotta – del collezionismo privato d’arte continentale. Ci sono, comunque, esempi piuttosto eclatanti come il milionario congolese Sindika Dokolo che però ha deciso di spostare il quartier generale della sua fondazione da Luanda a Porto, in Portogallo…
Dal 2006, i prezzi dell’arte africana sono aumentati del 300%, scrive la rivista Ogojii, citando Giles Peppiant, direttore del dipartimento di arte africana della casa d’asta londinese Bonhams. E la tendenza è aumentare perché l’arte del continente è ancora sottovalutata. Joost Bosland, direttore della Stevenson Gallery, nel panel di discussione della Fiera d’Arte di Basilea (giugno 2016), ha detto che la visibilità dell’Arte Africana è importante dal punto di vista storico ma questa visibilità non si riflette ancora in termini economici.
Ci sono segnali interessanti anche se le leggi del mercato sono crudeli. Anche nell’arte. Il “carburante” iniettato al mondo dell’arte africano, sia in termini di collezionismo che di finanziamento, via ONG e filantropie varie, sta scemando per via della crisi.
C’è chi dice che dovranno essere proprio quegli artisti africani – rappresentati nelle gallerie fuori dal continente africano – che si sono affermati criticamente, economicamente e istituzionalmente, a promuovere e supportare lo sviluppo dell’arte nel continente. Insomma, il futuro è roseo, q.b.
Paola Rolletta
rpaola@gmail.com
[1] Concetto proposto da Frank McEwen, all’inizio degli anni 60, quando nel periodo delle indipendenze africane, lui insieme a Ulli Beier, Pancho Guedes e i loro amici artisti neri si interrogavano sul futuro dell’arte.
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