Andrea Spinelli Barrile
Maratea, 13 settembre 2016
Tira una pessima aria in Guinea Equatoriale, piccolo paese africano all’estremo sud del Golfo di Guinea governato da quasi un quarantennio da uno dei “dinosauri” africani più spietati, il leader più longevo del continente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo.
Il figlio di Obiang, Teodorin Nguema Obiang, secondo vicepresidente della Repubblica, Ministro della Difesa e designato erede del padre, noto nel panorama internazionale tra i 15 casi di corruzione più clamorosi, una classifica stilata quest’anno dalla ong Trasparency International, è stato rinviato a giudizio in Francia per riciclaggio internazionale di denaro, appropriazione indebita di fondi pubblici, appropriazione indebita e corruzione.
La notizia, battuta mercoledì 7 settembre dall’Agence France-Presse, ha fatto immediatamente il giro del mondo: Nguema, che già in passato è stato protagonista di un altro processo per riciclaggio, appropriazione indebita e corruzione, questo negli Stati Uniti e conclusosi con un faraonico patteggiamento che il vice-capo di Stato africano non ha mai onorato, tanto dal convincere i magistrati americani a riaprire il caso. Quel processo americano fu possibile grazie alle prove fornite da un imprenditore italiano inizialmente indagato e poi completamente scagionato, Roberto Berardi, che ha pagato con il carcere quelle rivelazioni alla magistratura americana: due anni e mezzo di vero inferno in una delle peggiori prigioni di tutta l’Africa centrale, una storia che Africa ExPress ha raccontato dall’inizio alla fine e dalla quale Berardi è uscito vivo ma defraudato di ogni bene.
Il rinvio a giudizio del 47enne Nguema in Francia è il culmine, per ora, di un iter processuale travagliato fatto di ricorsi e scappatoie: i legali del vice-capo di Stato guineano le hanno provate davvero tutte per evitare al proprio cliente il processo francese ma dopo l’umiliante sequestro di beni in diretta televisiva – l’intero immobile nel quale c’è la sede dell’ambasciata parigina della Guinea Equatoriale, un palazzo ottocentesco in Avenue Foch, i beni mobili al suo interno, come la cantina di vini pregiati e la collezione di Yves Saint Laurent-Pierre Bergé, e una collezione di auto da fare invidia a un divo di Hollywood – e una sequela di ricorsi rigettati dalla procura, dal giudice e persino dalla Cassazione francese Nguema non ha più alternative se non il rendersi contumace.
L’inchiesta francese ha rivelato come Nguema abbia riciclato in Francia centinaia di milioni di euro di capitali di provenienza illecita tra il 2007 e il 2011, direttamente, per interposta persona o tramite società di copertura. Nel 2014 Nguema si era appellato all’immunità diplomatica, richiesta respinta nel 2015 dalla Cassazione, e nel giugno del 2016 si è persino rivolto alla Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja, il più alto organo giudiziario delle Nazioni Unite, per porre fine al processo francese. William Bourdon, avvocato francese di Trasparency International e di Berardi e presidente della ong anti-corruzione Sherpa France, si è detto entusiasta del rinvio a giudizio: “Sarà il primo processo di questo tipo in Francia” ha dichiarato a Jeune Afrique.
Con un comunicato stampa del 12 settembre il Partido Democratico de Guinea Ecuatorial (PDGE) ha negato che Nguema sia stato rinviato a giudizio, parlando di “notizie false” e spiegando che il contenzioso è attualmente al vaglio della Corte Internazionale di Giustizia. La salute del “sovrano” Teodoro Obiang, el jefe de Estado, è un altro elemento di grande incertezza per il futuro del piccolo Paese africano: 74 anni di cui 37 trascorsi al potere, malato da tempo e logorato dalla lotta tra i suoi figli per la successione, Obiang è da anni inseguito da voci sulla sua imminente morte, se non fisica almeno politica, ma per il momento è lui che continua a mantenere il potere ben saldo nelle sue mani spesso interessandosi personalmente dei guai giudiziari della moglie e del figlio prediletto Teodorin.
Il cappio giudiziario stretto attorno al collo del rampollo della famiglia Obiang non è l’unico elemento critico che in questo momento il Paese deve affrontare sul piano internazionale, e non solo: il 18 luglio scorso Agapito Mba Mokuy, ministro degli Esteri della Guinea Equatoriale, è stato escluso dalla corsa per la presidenza della Commissione dell’Unione Africana. Sembrerebbe una notizia come le altre, se non fosse che il Presidente Obiang in quelle ore stava tessendo la sua tela diplomatica con incontri formali a Kigali, in Ruanda, con il ghanese Mahama e il ciadiano Deby. Infuriato e contrariato Obiang è rientrato a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale, prima ancora della fine dello spoglio delle schede, anticipando platealmente la partenza e mostrando il proprio disappunto. Un fatto, questo, che secondo una fonte diplomatica di Africa ExPress ad Addis Abeba, dove ha sede l’Unione Africana, mostrerebbe come l’UA abbia operato una scelta, in merito ai rapporti diplomatici con la Guinea Equatoriale: abbandonarla al suo destino.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale il PIL in Guinea dovrebbe calare non poco quest’anno, almeno del 10%: la diagnosi dell’FMI è “pessimistica” ma secondo le stime il Paese non dovrebbe tornare a crescere prima del 2021. Un’eternità. I bassi prezzi del petrolio sui mercati e un consistente calo della produzione di idrocarburi negli ultimi due anni per via della mancata modernizzazione dei principali impianti del Paese stanno mettendo in ginocchio l’economia della Guinea, che come quella di altri colossi petroliferi come il Venezuela, il Brasile, lo Zimbabwe, il Mozambico e l’Algeria, per fare alcuni esempi, si basa essenzialmente sull’estrazione e la vendita di petrolio all’estero (90% del PIL; 87% di ricavi e 89% delle esportazioni totali).
Nel rapporto pubblicato l’8 settembre 2016 dall’FMI il quadro tracciato è preoccupante, anche se non critico: la crescita è diminuita di mezzo punto percentuale negli ultimi quattro anni ma solo nel 2015 il PIL è diminuito del 7,4% e il trend è in costante discesa. La crisi petrolifera e i limitatissimi margini di guadagno fiscali, risicati perché negli anni le aziende estere sono già state abbondantemente saccheggiate dagli oligarchi al potere e perché nonostante il reddito pro-capite sia superiore ai 32.000 dollari l’anno la realtà è che l’85% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. La cleptocrazia che regna indisturbata la Guinea Equatoriale da decenni ha tirato troppo la corda e oggi i capitali restano stipati nei container che gli oligarchi e la famiglia Obiang hanno nascosto nell’impenetrabile foresta ma il Paese è sempre più allo sfascio.
Le violenze nel vicino Gabon sono un altro elemento di incertezza, in questo caso non solo per la Guinea Equatoriale ma per l’intera regione: un’incertezza talmente grave che Teodoro Obiang, amico da sempre dei Bongo – padre e figlio – ha invitato il presidente gabonese a lasciar perdere e mollare il colpo in favore del suo oppositore Jean Ping. Un voltafaccia che potrebbe essere solo l’ennesimo tentativo di ingraziarsi la Francia, che ha apertamente condannato le violenze ed espresso vicinanza all’esponente dell’opposizione, schierandosi di fatto con lui, un tentativo che tuttavia non sembra essere andato a buon fine.
A completare il quadro critico del piccolo ma ricchissimo Paese africano ci sono le notizie stampa, rimbalzate in tutto il mondo, circa “il dittatore più terrificante del mondo”: il quotidiano britannico The Sun ha pubblicato un articolo il 10 settembre scorso, ripreso da tutti i principali quotidiani internazionali, circa la violenza che Obiang utilizza per governare il Paese e circa alcune voci sulla sua presunta passione per la carne umana. Si tratta di voci che si rincorrono da anni: a chi scrive sono state riferite più volte da diversi guineani espatriati, da ex-detenuti divenuti avvocati autorevoli ed attivisti per il diritto nel Paese africano e anche da Severo Moto, oggi leader dell’opposizione all’estero e vicino al regime fino al 1982. Incarcerato a Black Beach a Malabo ed esiliato successivamente in Spagna, almeno dal 2003 Moto muove accuse orribili e incredibili al Presidente Obiang ma rese credibili da ciò che di certo e documentato accade in Guinea Equatoriale per ordine del Presidente e della sua sanguinaria famiglia: tortura istituzionalizzata, giustizia iniqua, violenza a tutti i livelli sociali, pena di morte (anche se ufficialmente la Guinea ha firmato la moratoria internazionale), carcerazione a tempo indeterminato senza processo. Una realtà che conoscono bene due connazionali, Fabio e Filippo Galassi, incarcerati da oltre un anno nel carcere di Bata Central e condannati entrambi a oltre 20 anni per appropriazione indebita di fondi della società, un processo svoltosi senza le dovute garanzie di diritto e probatorie, come confermato ad Africa ExPress dal loro avvocato guineano. E ancora corruzione e ruberie, tangenti e narcotraffico, la cosa pubblica in Guinea Equatoriale si mescola pericolosamente con le bramosie criminali dell’onnipotente famiglia al potere.
Spesso alla radio, tutte le stazioni sono controllate dall’ufficio della Presidenza, si può ascoltare gli speaker che spiegano la natura divina del Presidente Obiang, il quale “può uccidere chiunque desideri perché non deve rendere conto a nessuno, nemmeno a Dio”. Roba forte per un Paese che si professa cattolico, sia in termini di credo religioso che di donazioni al Vaticano: la Santa Sede sembra in effetti, allo stato attuale, l’ultimo amico del piccolo paese africano. Il nunzio apostolico Piero Pioppo, savonese, bertoniano ed ex-direttore generale dello Ior, mantiene infatti un rapporto molto stretto con la famiglia Obiang, che ogni anno garantisce donazioni faraoniche alla diocesi dell’Africa Centrale. Donazioni talmente consistenti che il 12 agosto scorso una delegazione di oltre 100 persone, tutti esponenti istituzionali della Repubblica africana tra cui Presidente Obiang e consorte, è stata ricevuta in Vaticano da Papa Francesco. Durante la detenzione di Roberto Berardi le visite erano state ben quattro in dodici mesi: mai nessun capo di Stato era stato ricevuto con tale cadenza dal Santo Padre.
Andrea Spinelli Barrile
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