Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
11 aprile 2016
Il governo di unità nazionale si è rivelato più di uno spiraglio. A una settimana e mezzo dall’arrivo a Tripoli sotto il coprifuoco del neo premier legittimato dall’ONU della Libia, Fayez al Serraj, l’autoproclamato governo degli islamisti si è ritirato, sciogliendo il Congresso nazionale che da un anno e mezzo si ostinava a chiedere il riconoscimento internazionale. È il passo più importante e inatteso.
Con il placet delle milizie della capitale a Serraj, il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni può atterrare ora in sicurezza a Tripoli, subito dopo le visite dell’inviato dell’Onu per la Libia Martin Kobler e il suo consigliere militare Paolo Serra: un via vai impensabile fino a pochi giorni fa, e a breve riaprirà anche l’ambasciata italiana, dopo quelle di Tunisia, Malta e Marocco.
Nell’Est restano in carica il governo e il Parlamento rivali di Tobruk, che continuano a prendere tempo sul sì a Serraj: ma è probabile che l’assemblea si riunisca in settimana per la votazione, trovando (anche attraverso i negoziati in corso) un faticoso compromesso.
Tutta la prudenza è d’obbligo, la pax tra milizie che ha sorpreso la maggioranza di scettici sull’accordo di riconciliazione raggiunto in Marocco ha poco a che fare con la politica: la galassia di brigate ha smesso di litigare, perché la Banca centrale libica e la Compagnia nazionale del petrolio hanno subito dichiarato sostegno al nuovo esecutivo bipartisan.
Serraj ha poi chiesto alla Banca centrale -che veicola gli introiti di gas e greggio, dai quali deriva il 90% delle entrate governative- e ottenuto di congelare tutti i conti degli enti pubblici. Anche le milizie della lotta fratricida per le risorse e i fondi sovrani della Libia hanno gli stipendi bloccati. Per riaprire il rubinetti bisogna aderire al governo di unità nazionale e chiedere lo scongelamento a una commissione ad hoc. “O sei dentro o niente soldi”, ci dice un insider bene informato,“una buona idea perché la nostra è una guerra economica e finanziaria, non ideologica”.
Nessuno sa cosa accadrà, ma finora funziona. Le milizie e i Comuni, vera ossatura della Libia, sono in fila da Serraj. Si tratta su tutto: nomi dei ministri, vertici e composizione dell’esercito, controllo degli apparati finanziari. Diatribe che si trascinano dal 2011, anche per questo si erano creati due governi e due Parlamenti e anche per questo la pax è fragile. La sfida più grande è disarmare le brigate, ricomponendo un esercito nazionale: tentativi falliti per l’enorme diffusione di armi tra milizie e per l’invio di altre armi da diverse potenze straniere interessate a spartirsi la Libia.
L’idea di fondo è riabilitare i militari della vecchia Libyan Army -al passo sofferto si opponevano entrambi i governi di Tripoli e Tobruk, ma ora di mezzo c’è l’ONU-, inglobando parte delle milizie: le maggiori controllano già blocchi di parlamentari e figurano sotto il ministero della Difesa; i problemi “potrebbero venire dalle brigate più piccole”. Tra i quadri dell’apparato giudiziario si pensa invece di piazzare personalità che si sono battute per i diritti umani.
Le trattative sono le più inclusive possibili, bisogna cercare di accontentare tutti, un passo troppo lungo e riesplodono le scintille. Anche fazioni islamiche estremiste come Ansar al Sharia (che occupano città e parti di città come Bengasi) sono interlocutori, “basta che siano libici, perché dai libici non viene il vero pericolo del terrorismo”. L’obiettivo primario è ricompattarsi “per cacciare l’ISIS da Sirte”, in particolar modo gli “stranieri che sono penetrati nel Paese”. Sui dicasteri dell’esecutivo Serraj, il braccio di ferro è in corso da mesi.
La squadra del suo Consiglio presidenziale nella base navale tripolina di Abu Sittah, sede blindata del governo, non è ancora, come si è erroneamente scritto, composta da ministri: trattasi di Serraj, cinque suoi vice premier e tre ministri, ma senza portafoglio. La lista iniziale di 32 nomi è stata ridotta a 12-13 e deve essere approvata dal parlamento di Tobruk, ma solo dopo il sì alle modifiche costituzionali necessarie per sopravvivere come organo legislativo del nuovo governo.
L’accordo di pace di dicembre sotto la guida dell’ONU prevede infatti che, delle due assemblee, il Congresso di Tripoli decada trasformandosi in Consiglio di Stato dalle funzioni consultive, e che il Parlamento di Tobruk torni nella capitale, ma solo dopo aver accettato l’esecutivo di unità nazionale. La mossa pro-Serraj delle milizie islamiste di Alba libica, guidate da Misurata, ha spiazzato tutti: la maggioranza del Congresso nazionale si è disciolta; il premier islamista Ghwel continua a dare direttive ai suoi “ministri” ma è riparato a Misurata; e gran parte dei 10 Comuni che hanno aderito al governo Serraj appartiene allo schieramento di Alba libica.
Il parlamento di Tobruk nicchia per le pressioni del generale Khalifa Haftar che lo controlla, desideroso di diventare il capo dell’esercito nonostante gli islamisti non lo vogliano in nessun modo. Ma da un no a Serraj ha molto da perdere. Haftar e i suoi si sono espressi con freddezza in merito, ma per diversi osservatori vicini ai negoziati le dichiarazioni arrivate da Tobruk riflettono in realtà l’ala più intransigente e non tutto il Parlamento, parte del quale era traslocato in Tunisia per le trattarive e sta rientrando in Libia per la seduta.
Le cose si starebbero smuovendo anche a Tobruk, la votazione è attesa nei prossimi giorni alla presenza di delegati invitati di ONU, UE e Unione africana. Più si aspetta, più gli islamisti si accreditano di fronte a Serraj per la spartizione. Si ignora la contropartita concessa ad Alba libica per ritirarsi e far girare in sicurezza a Tripoli il nuovo premier. Alla fine Haftar potrebbe comandare l’esercito “per qualche mese”, ai suoi deputati nell’Est potrebbe essere fatta qualche altra concessione.
Adesso in Libia comanda la Banca centrale: una cinquantina degli 87 Comuni ha firmato l’adesione o la sta trattando con Serraj, e i Comuni vicini a Tobruk non sono contrari a priori ma aspettano il sì dagli organi centrali. Fino a prima degli accordi in Marocco, l’organismo finanziario che ha sede temporanea a Malta era rimasto neutrale e trasferiva i ricavi a tutti gli schieramenti. Aveva però anche mantenuto forti i legami, numerosi e consolidati, con gli interlocutori occidentali che ora sostengono il nuovo governo dell’ONU.
Barbara Ciolli
barbara.ciolli@tin.it
@BarbaraCiolli
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