Speciale per Africa ExPress
Barbara Ciolli
23 febbraio 2016
Gli Stati Uniti hanno bombardato uno dei campi d’addestramento in Libia dell’ISIS che da mesi sono indicati vicino a Sabratha: la cittadina tra Tripoli e il confine tunisino ostaggio dell’ISIS, che è sede anche di splendidi resti archeologici e dei moli d’attracco di alcuni (non la maggioranza che è a Zuara) dei barconi di migranti diretti verso Lampedusa.
È la quarta operazione militare mirata degli americani nell’ex Jamahiriya di Muammar Gheddafi, dopo il blitz in mare dei Navy Seals del 2014 per fermare un carico illegale di petrolio libico, e i due raid del 2015 tra Agedabia e Derna per uccidere il jihadista e criminale algerino Mokhtar Belmokhtar, bersaglio mancato, e poi l’emiro iracheno dell’ISIS Abu Nabil al Anbari, ex comandante saddamita colpito nell’operazione.
Dicono fonti libiche di ambienti coinvolti nei negoziati ad Africa ExPress, che dalla caduta di Gheddafi gli americani sono una superpotenza nascosta, “ma sempre molto, molto presente” nel Paese. Nel 2012, l’anno dell’attentato al Consolato statunitense a Bengasi, gli “americani avevano anche un campo d’addestramento in Libia”.
Il via libera ai droni armati degli USA per azioni in Libia “a scopo difensivo” dalla base siciliana di Sigonella è ora un altro passo verso un nuovo intervento militare occidentale dal 2011, con ogni probabilità con target e interessi strategici (degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, competitor degli italiani nel Paese) definiti da tempo.
Tutte le forze libiche in guerra, incluso il governo di unità nazionale che tenta di insediarsi a Tripoli, rifiutano interventi stranieri, a ragione visti come un tentativo di estirpare il terrorismo in cambio dell’acceso ai giacimenti di gas e petrolio. I libici ammettono tuttavia di aver bisogno dell’aiuto anche occidentale “innanzitutto per chiudere i confini di un Paese aperto a tutti”, ricostituendo esercito e intelligence.
Ogni fazione fa entrare in Libia i suoi supporter dagli scali aerei presidiati e anche dalla frontiera meridionale del Fezzan, un deserto sconfinato dove è in corso una guerra che nessuno racconta e che richiama migliaia di combattenti stranieri mischiati a trafficanti, migranti, avventurieri. Inutile anche costruire fossati come ha fatto la Tunisia al confine con la Libia, non lontano da Sabratha: “I sospetti non passano più via terra, ma si volano da Tunisi verso Istanbul e da lì, con le compagnie libiche, a Tripoli e a Misurata”, raccontano i nostri informatori.
Lo stop ai collegamenti di linea aerei stranieri per la Libia, inclusi quelli di Turkish Airlines, è solo un blocco di facciata. Anche il generale Khalifa Haftar, nemico degli islamisti di Tripoli e Misurata, lascia egualmente arrivare dal suo scalo di Tobruk armi e rinforzi e, attraverso il Sahara, anche mercenari dal Ciad, dal Niger e dal Sudan, che nel Sud alimentano gli scontri tra la minoranza nera libica dei tabu e i tuareg.
In passato sia Gheddafi sia Haftar hanno usato i migranti economici dall’Africa centrale come manovalanza, di riforzo all’esercito l’uno, per tentare il golpe l’altro. Il Sud della Libia del quale parlano solo i migranti e l’ultimo rapporto ONU sull’emergenza umanitaria è teatro da tempo di una proxy war dove ognuno – Haftar, ma anche la Turchia, il Qatar, gli Emirati arabi e diversi sponsor occidentali che vendono loro le armi – manda avanti il suo gioco sporco.
Tra le “centinaia di migliaia” di mercenari penetrati in Libia dal Sahel, anche i Boko Haram nigeriani affiliati all’ISIS che hanno raggiunto il distaccamento libico del Califfato a Sirte. I libici negano, anche in buona fede, che il Sud fuori controllo del Fezzan sia occupato dai jihadsti dell’ISIS, “loro sono solo nell’ex roccaforte di Gheddafi, Sirte, e hanno cellule silenti in tutte le altre città della costa”. Ma in Libia l’ISIS ha annunciato l’istituzione di tre wilayat (Province) come spazio d’espansione: la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan.
Fonti attendibili tra i profughi hanno confermato ad Africa ExPress di essere finite anche dalle mani dell’ISIS durante le stazioni della tratta di esseri umani dal Sahara verso la costa libica e di essere potute scappare dalla prigionia degli uomini di al Baghdadi durante gli scontri esplosi tra l’ISIS e altre fazioni di libici.
Come il Nord della Siria e dell’Iraq che l’esercito di Assad non riusciva più a controllare, il Sud della Libia è uno spazio aperto e in balia di tutti, ideale per tracciare i confini di un nuovo sedicente Stato islamico in Africa. In generale in tutta la Libia “è saltato il controllo dei visti alle frontiere, è facile entrare e anche salire sulle barche dei migranti”, ci dicono le fonti locali.
Qui ci sono “soldi, un sacco di armi e munizioni, nessun governo centrale, intelligence o polizia, cosa vogliono di più i terroristi?”. Molti fattori hanno contribuito a questo disastro, incluso il proliferare di armi e prebende tra le milizie. Ma i libici ripetono che “un buon 75% dei combattenti dell’ISIS nel Paese è di origine straniera: tunisini, yemeniti e jihadisti da altri Stati arabi e anche occidentali. La Libia è l’ambiente di un’operazione fatta con altre nazionalità”.
Anche la struttura di comando del Califfato è “formata da quadri di diverse nazionalità ed è questa la sua forza”. La popolazione libica percepisce l’infiltrazione straniera come una minaccia, ma non è in grado di arrestare il fenomeno. In effetti la maggioranza dei circa 40 combattenti dell’ISIS uccisi a Sabratha nel raid Usa erano tunisini e sono morti anche due loro ostaggi serbi.
Tra loro forse anche la presunta mente delle stragi del museo del Bardo e delle spiagge di Soussa, Noureddine Chouchane, ma potrebbe essere un obiettivo fallito come Belmokhtar.
Barbara Ciolli
barbara.ciolli@tin.it
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